Ma con un poco di pazienza, grazie a qualche intervista
“giusta”, appunti di mio padre e recuperando tracce e curiosità fra i tanti libri
di cultura locale presenti nell’immensa libreria che fu sempre di mio padre, ho
cercato di trovare informazioni su quel periodo, relativamente a com’era
vissuta questa giornata e cosa si mangiava durante il pranzo natalizio.
Difficile riunire in un unico “grande menù” le varie pietanze e piatti che si
alternavano a Natale sulle tavole dei nostri nonni, visto che poi ogni famiglia
aveva e ha ancora adesso uno o più piatti forti, ma proverò a sviscerare in
modo più (o meno) esaustivo l’argomento.
Natale: innanzitutto iniziamo a parlare della Natività. Per
i nostri vecchi era chiaramente una festa ben diversa dall’attuale. A quei
tempi era concepita e vissuta solo come momento religioso, dove la nascita del
Cristo era l’elemento centrale di quella giornata. Devoti com’erano, prima di
tutto veniva la partecipazione alla “Mesa
de mezanòtt” o alla “Mesa Granda”,
poi come corollario avveniva l’aggregazione in famiglia, dove ci si riuniva
tutti intorno al tavolo per festeggiare e passare insieme la giornata, dinanzi
a leccornie che a quel tempo erano disponibili solo per quella particolare
occasione.
Tra le altre attività previste in quel giorno, vi era l’immancabile
visita mattiniera “ai mort” al
cimitero, dopo di che le donne correvano a casa per gli ultimi preparativi del
pranzo, mentre gli uomini si fermavano per un “bicèrin” veloce con gli amici. E poi, come detto prima, ecco che
si dava il via alla grande abbuffata !
Al giorno d’oggi
invece Natale ha ormai assunto significati di puro carattere commerciale: la
frenetica corsa ai regali, la voglia di passarlo magari in vacanza in posti
esotici per trasformarci anche noi in VIP, e tante altre “baggianate” hanno
snaturato il significato della festa. Ma questa è purtroppo un’altra storia… rimane
comunque per i più, l’appuntamento a tavola.
Lasciamo quindi il moderno Natale e facciamo un salto
indietro di circa settant’anni - ottant’anni, ponendoci tra il 1930 - 1950….
Fino a cavallo delle due guerre, se non anche per il
decennio successivo, l’unica fonte per la cottura dei cibi (e anche per
riscaldarsi, oltre che al calore dato dagli animali presenti nella stalla) era
il fuoco provocato dalla combustione di ceppi di legna e di “maregasc”, alternati al carbone.
Pentola principe della cucina era il “parieu”,
il famoso paiolo in rame nel quale si cucinava la polenta, per poi trovare
anche “padèll e padèlitt” di svariate
forme e dimensioni. Il pentolame per cucinare era posto sopra il “foeug” del camino, attaccato alla cappa
tramite una catena, oppure sulla “stüa” a
legna o carbone (che comunque fu introdotta negli anni successivi), e qui s’iniziava
a cuocere il cibo. Cibo prevalentemente formato da “süpa”, “minestar”, “pulenta”, “carna
pouvera”, “urtagg” e “öeuv”.
La varietà di scelta di cibi non era quindi molto ampia, famoso è
il detto “se l’è no süpa l’è pan bagnàa”,
solo con l’avvento più avanti di cucine a gas (molto più veloci nel cuocere il
mangiare), un maggiore benessere economico e “l’imbastardimento” con altre
cucine regionali, dovuta all’arrivo dei migranti nei nostri paesi in cerca di
lavoro, si modificarono (in parte) le nostre ricette e tradizioni culinarie.
“Ul dì de Natäl” era già
chiaramente vissuto il giorno prima, la vigilia. Alla sera della stessa s’iniziava
a respirare l’aria natalizia con il passaggio nelle principali vie del paese
della locale banda musicale, la quale eseguiva le “nenie” e la famosa “Piva”. Gli
adulti passavano la notte a vegliare nel caldo della “stàla”, oppure in qualche osteria (soprattutto gli uomini).
Denominatore comune era la presenza del vino, che scaldava e metteva allegria !
“Vers i des ùr”, ecco che saltavano
fuori i primi piatti “de büseca” o
qualche “cudeghìtt”, il tutto
rigorosamente cucinato solo dagli uomini e accompagnati con una bella pagnotta “de pan giàld”. Perché la notte della
vigilia cucinavano la “büseca” esclusivamente
gli uomini ? Perché era credenza che le viscere delle donne, solo per quella notte,
ricordano il travaglio della Maternità. Successivamente, verso le undici –
undici e trenta, ci s’incamminava “vers
la gèsa” per la messa di mezzanotte (l’usanza della messa notturna era la
principale scelta dei nostri bisnonni e nonni, ma comunque molti altri invece
partecipavano alla successiva messa mattutina).
Non era raro uscire poi da chiesa e imbattersi, nel caso di neve,
nel fragoroso passaggio della “calauàa”,
a quel tempo formata da un carro con la “cala” in legno trainato da cavalli. La
giovialità toccava il suo culmine nel momento dello scambio degli auguri sul
sagrato della chiesa, dove abbracci e saluti si sprecavano tra amici e
conoscenti. Usanza era anche quella di recarsi in sacrestia a porgere gli
auguri al parroco, vero conduttore della vita sociale di quel tempo.
Al termine della messa, iniziava l’attesa più lunga per i bambini:
anche per loro, come per noi e i nostri figli (ci siamo passati tutti), il
mattino successivo era atteso con trepidazione, nella speranza di trovare
qualche regalo. Regali che chiaramente non erano numerosi e tecnologici come
gli odierni, ma si limitavano a qualche
piccolo Pinocchio o bambolina di legno o di pezza, lavagnette,
pallottolieri, trottole di legno oppure in qualche bel “bumbòn” da assaporare e gustare lentamente (cosa che però non
avveniva mai, data l’ingordigia dei bimbi)….i più fortunati (e ricchi) potevano
ricevere magari anche una biciclettina, che l’avrebbero poi portata sino
all’età adulta (per poi passarla ai fratelli minori). Mio padre, all’età di 10
anni, invece ricevette una bellissima macchinina in metallo della Schuco, ancora oggi presente e
funzionante a casa mia (ricordo che mi diceva che mio nonno, cioè suo
padre, fece sacrifici economici tutto l’anno pur di acquistargliela !)
Vi erano alcune usanze particolari da rispettare durante la
vigilia e la giornata di Natale. Usanze riconducibili a prima del 1900, in
quanto anche mio padre mi ha sempre detto che fin da piccolo alcune di queste
non le ha mai viste fare ne dai suoi genitori, ne dai suoi nonni.
VIGILIA
·
Stare a digiuno oppure mangiare solo di magro
·
A mezzanotte mangiare la “cassoeula” o in alternativa “büseca”
·
Non spazzare la casa appena benedetta dal
prete
·
A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e con
essa lavare i bambini, in quanto era l’acqua di Gesù Bambino (1ª versione)
·
A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e
berla con tutta la famiglia, perché la si ritiene benedetta (2ª versione)
·
A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e
bagnare i graticci destinati ai bachi da seta, altrimenti quest’ultimi
moriranno (3ª versione)
·
Mettere una tazza di brodo e un lumino sul
davanzale della finestra per i morti
NATALE
·
Non rifare i letti
·
Al suono dell’Ave Maria bastonare gli alberi
da frutta, in quanto la credenza era quella per cui si avrebbe avuto un buon raccolto
·
Non leggere, tranne i libri delle preghiere,
in modo da preservare la vista
·
Offrire un cucchiaio di risotto agli animali,
così rimanevano benedetti anche loro
·
Offrire il vino di propria produzione
·
Ungere con la schiuma del brodo il ceppo che
arde sul fuoco
·
Sulla spalliera del letto riporre un grappolo secco
d’uva, in quanto portava fortuna
La mattina di Natale, per quelli che si recavano alla “Mesa Granda”, era vissuta come raccontato in
apertura dell’articolo, per poi accomunarsi in maniera simile per tutti.
Il ceppo più grosso che si trovava nella legnaia era il
predestinato per essere riposto nel camino, e il suo compito era di durare
tutto il giorno (o il più possibile). La scelta del ceppo era fatta dal membro
più anziano, e la sua accensione era quasi un rito cerimoniale, utilizzando
anche talvolta rami di alloro o altre erbe aromatiche.
Le tavole erano imbandite con le tovaglie della festa (solitamente
prelevate dal corredo matrimoniale), e i profumi della cucina iniziavano ad
espandersi nell’aria, provocando forti languorini tra tutti i commensali.
Nell’attesa era tradizione consumare una piccola tazza di brodo “da còo da vaca”.
“Ul
regioù” si recava personalmente in cantina “a ciapà ul vin quel bòn”, che poi in realtà non differiva da quello
consumato quotidianamente, mentre solo più avanti negli anni prenderà piede
l’usanza di accompagnare il dolce con la famosa “acqua de pòmm”, ovverosia un vino di tipo moscato proveniente in prevalenza dall’Oltrepò Pavese, invece ora
è sicuramente più famoso e in voga il moscato piemontese.
Con il giungere di tutti i familiari prendeva il via il pranzo.
Convinzione particolare era quella che il cibo cucinato a Natale
durasse più a lungo, tanto è vero che se ne avanzava in parte anche per Santo
Stefano e per i giorni successivi. Questo fatto è comune anche al giorno
d’oggi, non perché si crede che duri più a lungo, ma perché semplicemente ne
abbiamo talmente in abbondanza che avanza anche per il giorno dopo.
A quei tempi l’antipasto vero e proprio non esisteva, al massimo
si affettava del salame nostrano e come chicca natalizia si gustava qualche “saracch” comprata per l’occasione al “mercàa”. Si cucinava prevalentemente
come primo piatto del risotto o in alternativa, soprattutto spostandoci verso
Varese, si mangiava la “rustisciada” o
la “rustaia”. La “rustisciada” era un fritto di “lacet,
firon, cervela, luganiga” e abbondante cipolla, mentre la “rustaia” era fatta con lombo di maiale
e “luganiga”, cotti a fuoco lento con
trito di cipolla, rosolati con del burro. Il piatto clou era invece la carne,
soprattutto il cappone o l’oca (altrimenti ci si accontentava di un semplice “pulastàr”).
“Bonn fest
e bon Natal – e bonna carna d’animal” (proverbio saronnese)
Il cappone, che è un gallo castrato, veniva ben “ingrassato” per
il Natale allevandolo nella “capounera”,
una rudimentale gabbia in legno e rete metallica che dava poco spazio di
movimento al malcapitato gallo, che nutrito forzatamente, diventava bello
pasciuto nel giro di pochi mesi.
Sgozzato, spiumato ed eviscerato, veniva cotto sul fuoco per circa
due ore, due ore e mezza. La perfetta cottura si capiva dalla morbidezza delle
carni e dalla pelle croccante e leggermente bruciacchiata.
La classica variante era quella del cappone ripieno: si faceva un
trito di carni (solitamente derivate dai tagli meno nobili di altri animali
precedentemente macellati), si univa prezzemolo, aglio, uova, sale, rosmarino,
erba salvia, noce moscata e qualche fetta sbriciolata di salame, e con pazienza
e sapienti gesti si riempiva completamente l’interno del cappone.
Alternativa al cappone era l’oca, soprattutto nella zona del
Saronnese. La preparazione è simile a quella del cappone, sia nella versione
non ripiena che ripiena. “I sarònatt”
nel ripieno aggiungono anche degli amaretti, giusto per dargli un tocco
particolare in più. Un’interessante ricetta tradizionale di oca alla
“gerenzanese” la troviamo ben descritta qui, sul sito di Pierangelo Gianni.
Come sapete, i nostri vecchi erano maestri nel non buttare nulla
per quanto riguarda gli animali macellati. Infatti le interiora del cappone (o
oca), tra cui fegato, cuore, e viscere, una volta ben pulite erano
cotte per circa un’ora tra loro, creando un intingolo profumatissimo. Questo
intenso profumo lo ricordo benissimo anch’io, in quanto finché i miei nonni
hanno avuto il pollaio, cucinavano queste particolari parti dell’animale. Dico
la verità: non ho mai avuto il coraggio di assaggiarli, ma il profumo forte e
deciso, era veramente invitante.
Ma per le feste, la parte principale dell’animale che veniva
riutilizzata era il collo. Una volta ben pulito anche lui, era riempito di
ripieno e cotto assieme al cappone. Tagliato poi a fette, era la vera
specialità della giornata. Ancora oggi a casa mia viene fatto, ed è davvero
buono !
Non tutti però avevano l’usanza di cuocere arrosto il cappone o
oca natalizi. Venivano cotti anche “a
lèss”, risultando così meno saporiti ma sempre pur molto teneri
(testimonianza di mia madre: “a cà mia
gh’era menga tropp da rost, la mama Giuanina la faseva sempar ul lèss)…
La carne era accompagnata con della mostarda, sempre presa solo
per quest’occasione. Ci si recava presso la cooperativa o al mercato con una
piccola “sidèla”, la quale veniva
riempita fino alla quantità desiderata dal commerciante che la vendeva.
Quest’ultimo la prelevava da un enorme “mastell”
ricolmo della stessa, e con il “pedrioeu”serviva
i clienti.
Il pranzo si svolgeva con ritmi molto lenti e lunghe pause. Questo
sia per riprendere appetito, sia per dare spazio alle lunghe e innumerevoli
discussione che si aprivano a tavola (la classica tombolata natalizia prenderà
piede molto più avanti).
Dopo la carne, ci si permetteva da “bucunà un po’ da strachìn con un tuchelitt da pan giàld, giüst par
netàa la bùca”! “Ul strachìn” era
praticamente l’unico formaggio che si mangiava a quell’epoca nella nostra zona.
Nel sud della provincia di Varese, non vi era l’usanza di fare del formaggio,
il latte veniva utilizzato principalmente per ottenere il burro (tramite la famosa
“pènagia”), ma soprattutto era
destinato ai vitellini, e non alle persone.
Come frutta, noci, “pòmm”
e fichi secchi (tutta roba nostrana chiaramente) erano quelle principalmente
servite, poi con gli anni arrivarono arance, mandarini, spagnolette e dopo le
conquiste coloniali anche datteri e banane.
Si giungeva così al dolce, che chiaramente era semplicissimo: la
classica “brusèla”, pane a cui si
aggiungeva fichi o uva, che chiaramente, dato il periodo, erano stati fatti
essiccare. Il panettone classico giunse ben più tardi, nel dopoguerra, con
tante altre nuove novità (non solo culinarie) che i nostri bisnonni fecero in
tempo ad apprezzare per non molto tempo, data la loro età ormai avanzata. Anche
se per onestà, per quanto riguarda i dolci, non posso esimermi dal ricordare il
panettone saronnese, “ul Marmott”.
Pare che questo dolce, derivato dal “pan
giàld” al cui impasto si aggiungeva burro, uova, zucchero e uva, a Saronno
fosse già citato in un articolo fin dal 1839. Inizialmente la forma era tozza,
schiacciata, poi una volta iniziata una maggiore produzione, assunse la
classica forma del panettone. Non è escluso quindi che a quel tempo un simil
panettone fosse in uso nel circondario di Saronno, il problema è che poi anche
a Saronno ne scomparve l’utilizzo, e quindi del “Marmott” se ne persero le tracce. Solo ultimamente si sta cercando
di riproporne la ricetta e la sua riproposizione di dolce a livello locale.
Ecco gli ingredienti della ricetta reinterpretata dal vecchio panificio De
Micheli:
Farina
gialla di mais hg. 2
Farina di
segale integrale hg. 3
Farina di
segale di frumento hg. 0,5
Fichi
secchi tagliati a strisce hg. 2,5
Noci
lievemente sminuzzate hg. 2,5
Mele
sbucciate e affettate n° 3Zucchero hg. 3
Burro hg. 1,5
La loro giornata di Natale , dopo ulteriori ore passate a
discutere tra un “bicèr e l’altar” giungeva
così al termine. I bambini esausti dalla baldoria fatta si addormentavano
felici, mentre i “vecc” ,
malinconicamente, facevano notare che anche quel Natale era passato in un
battibaleno, pregando “ul Signur” di
fargliene vivere un altro ancora…
Rivarà stù
gran Natàal
l’è una
fésta in generàal
a la
mattina ‘n büsechìn
cunt adrée
un tazzìn de vin
al mesdì
un bèl capòn
cunt adrée
un quaicòs de bòn
a la sìra
‘n panetòn
vèm in
lètt a tamburòn
(poesia di Massimo Pirovano - Castello Brianza)