venerdì 23 dicembre 2011

Buone feste a tutti...

Un augurio di buon Natale e felice anno nuovo....


Purtroppo questo in questo periodo lo studio mi ruba tempo prezioso, e non riesco a dedicarmi come vorrei al blog...ancora qualche mese di "sofferenza", poi ci rivredemo con tante novità interessanti !!!
Ciao

venerdì 16 dicembre 2011

mercoledì 14 dicembre 2011

Non ci sono più scuse !!!

Cari Comuni, custodi dell’identità nazionale tra valli, campagne e pianure, con la reintroduzione dell’ICI, ribattezzata IMU, non ci sono più scuse per consumare suolo per incamerare gli oneri di urbanizzazione per i bilanci locali. Se quest’ora richiede coraggio, voi avete un altro appuntamento non meno importante: quello con il paesaggio di questa Italia che tutto il mondo apprezza. Tra le vostre mani avete la possibilità di fermare i consumi di suolo di un Paese che non cresce demograficamente ai ritmi delle terre edificate: siamo attorno alla pazzesca stima di 120-150 ettari al giorno. Siete voi che progettate e approvate i piani urbanistici che sono il quarto pilastro dell’ambientalismo moderno, positivo e costruttivo, strumento principale per sottrarre l’ambiente al «libero gioco» delle forze di mercato.

La tutela del suolo quale risorsa ambientale e bene comune è una priorità ed è quasi tutta nelle vostre mani. Certo, anche regioni e province hanno grosse responsabilità. Ma voi, con i vostri piani urbanistici, potreste dare una risposta cruciale per lasciare al paese e ai suoi futuri abitanti quel che rimane della bellezza delle campagne, delle colline, delle valli alpine e dei versanti a mare. Fermate i piani che state elaborando: rispedite al mittente le richieste di edificazione inutili da un punto di vista urbanistico e utili per i tornaconti finanziari che, però, lo avete toccato con mano, vi generano ulteriori spese che si scaricano sul futuro: una sorta di girone perverso. Il suolo libero che è stato urbanizzato era agricolo nel 90% dei casi.

L’urbanizzazione speculativa di questi ultimi 15 anni non ha solo degradato il nostro paesaggio come ha già ben spiegato Salvatore Settis, ma ha diminuito la nostra produzione agricola contribuendo ad aumentare la nostra dipendenza da altri mercati e dal costo dell’energia. Possiamo permettercelo? No. Dobbiamo tutelare i nostri suoli agricoli che producono il cibo più buono del mondo e insieme a tutti gli spazi aperti (i prati e le foreste italiane), ci fanno respirare e ci preservano dai danni delle alluvioni.
 Paolo Pileri - docente Politecnico di Milano

domenica 11 dicembre 2011

I scires e i pergnocc dul preost

Questo racconto è tratto dal manoscritto che Mario Carnelli ed Albino Porro hanno redatto nell'ormai lontano 1984 (il libro è disponibile presso la biblioteca di Gerenzano).
Nel manoscritto viene raccontata la storia della Gerenzano che fu, quella dei nostri nonni e dell'adolescenza dei nostri padri, la vita quotidiana, i lavori dell'epoca, il dialetto come unica lingua, la toponomastica della vecchia Gerenzano...una Gerenzano scomparsa, ma che vive nel cuore dei "nostar vecc" !

Questo blog mensilmente proporrà uno di questi racconti...



Nel 1948 a Gerenzano la fame era ancora tanta. Noi ragazzi aspettavamo i primi giorni di giugno per cominciare a saziarla con la frutta (degli altri). Uno dei giardini di Gerenzano più ricchi di piante da frutto era quello del prevosto Don Antonio Banfi.
Questo giardino era una specie di Eden: "sa cuminciava cui scires, s'andava avanti cui mugnagh, persigh, periti, brugn, per spadon, figh, pomm granàa, pomm cudogn, uga e sa finiva a nuembar cui cachi". In quanto alle fragole, beh quelle addirittura non riuscivano mai a maturare. Di tutto questo "ben di Dio" ben poco finiva sulla mensa di don Antonio Banfi tanto è vero che il giorno che la perpetua glielo fece notare gli rispose: "la fruta l'è mej che la mangian lur che i sturnej o i merli". E' chiaro che "lur" eravamo noi ragazzi.
Infatti verso la fine di maggio noi ragazzi arrivavamo in Piazza XXV Aprile con circa dieci minuti di anticipo sull'orario di apertura della scuola (l'edificio scolastico di allora è stato adibito nel frattempo a sede del Comune) e ci mettevamo a passeggiare per via G. Zaffaroni con lo sguardo rivolto verso l'albero delle ciliege, che si stagliava alto verso il cielo, per vedere se le ciliegie dei rami più alti cominciassero a maturare. Ai primi di giugno le maestre notavano in noi ragazzi una certa irrequietezza ma non riuscirono mai a capirne il motivo. Infatti l'invaiatura delle prime ciliege ci elettrizzava, ci faceva venire l'acquolina in bocca. In quei primi giorni di giugno, durante la passeggiata mattutina, le frasi che si sentivano non erano altre che di questo genere: "guarda ca la broca là me l'è caregada, no guarda l'altra la se dobia adirittura sota al pes di scires, ca la rama là la devi catàa mi" e così via. Finalmente il gran momento arrivava.  
All'uscita dalla scuola invece di andare a casa andavamo sotto il muro di cinta del giardino del prevosto. Lasciavamo le cartelle per terra: uno si appoggiava al muro, l'altro gli saliva sopra e così via. Una volta sul cornicione del muro si sollevava il compagno che aveva fatto da base. Si saltava dentro nel giardino e si ripeteva l'operazione sotto l'albero delle ciliege. Il sacrista (ul pur Giuann) lo sapeva e faceva in modo di non farsi vedere in giro verso quell'ora: l'unica sua raccomandazione era di non rompere i "griseu" altrimenti l'anno prossimo la pianta non avrebbe più fruttificato. Ma chi pensava all'anno prossimo! Era il presente che contava. Ma per non far vedere che glieli avevamo rotti, li portavamo via nascosti sotto le bluse e li abbandonavamo per le strade o nei campi, E dopo che ci eravamo saziati rifacevamo il percorso inverso.  
Gli unici frutti che "ul pur Giuann" riusciva a cogliere erano i "pomm cudogn" e questo perché, crudi, erano quasi immangiabili anche per degli affamati come noi. Egli li vendeva alle donne che li mettevano nei cassetti dove tenevano le lenzuola affinché queste si impregnassero del loro inconfondibile profumo. Allora era usanza, per i ragazzi, confessarsi una volta alla settimana. Quando raccontavamo al prevosto che avevamo rubato le ciliege, il prevosto ci diceva "eran i me chi scires lì, vera?" e noi abbassavamo la testa senza rispondere. Poi, "al pusava la reverenda man sura ul nostar co", ci assolveva e "peu su la front ci dava di pergnocch per i su scires che gh'avevum rubàa". E questa era la sua personale penitenza che ci dava. Ora di quell'eden che era il giardino del prevosto don Antonio Banfi non restano che "maregasc in pee, erba mata alta un metar e una quaj pianta da fruta”. Così va il mondo.
P.S. Per dare "ul pergnocch" si chiudeva a pugno la mano lasciando leggermente sporgente rispetto alle altre dita il dito medio ed era questo che dava il colpo.

II racconto è stato scritto nel novembre del 1983 e la fotografia all’inizio del racconto è stata scattata nel febbraio del 1984. Fino al novembre del 1983 il giardino era esattamente nelle condizioni descritte nel racconto: ora metà di esso, come risulta dalla foto, è stato ripulito dai "maregasc in pee e da l'erba mata alta un metar"), mentre l'altra metà è ancora invasa dalle erbacce. I "maregasc in pee" sono stati tritati e lasciati sul terreno dove sono ancora visibili.