mercoledì 18 dicembre 2013

Natale e il suo pranzo nella vecchia tradizione del basso varesotto...

Risulta sempre più difficile risalire ad antiche ricette ed usanze natalizie in voga nei tempi che furono, relative alle nostre zone d’origine… il numero dei “nostar vecc” purtroppo diminuisce con il passare degli anni, e la loro esperienza, vita e cultura rischiano di scomparire per sempre.

Ma con un poco di pazienza, grazie a qualche intervista “giusta”, appunti di mio padre e recuperando tracce e curiosità fra i tanti libri di cultura locale presenti nell’immensa libreria che fu sempre di mio padre, ho cercato di trovare informazioni su quel periodo, relativamente a com’era vissuta questa giornata e cosa si mangiava durante il pranzo natalizio. Difficile riunire in un unico “grande menù” le varie pietanze e piatti che si alternavano a Natale sulle tavole dei nostri nonni, visto che poi ogni famiglia aveva e ha ancora adesso uno o più piatti forti, ma proverò a sviscerare in modo più (o meno) esaustivo l’argomento.
Natale: innanzitutto iniziamo a parlare della Natività. Per i nostri vecchi era chiaramente una festa ben diversa dall’attuale. A quei tempi era concepita e vissuta solo come momento religioso, dove la nascita del Cristo era l’elemento centrale di quella giornata. Devoti com’erano, prima di tutto veniva la partecipazione alla “Mesa de mezanòtt” o alla “Mesa Granda”, poi come corollario avveniva l’aggregazione in famiglia, dove ci si riuniva tutti intorno al tavolo per festeggiare e passare insieme la giornata, dinanzi a leccornie che a quel tempo erano disponibili solo per quella particolare occasione.

Tra le altre attività previste in quel giorno, vi era l’immancabile visita mattiniera “ai mort” al cimitero, dopo di che le donne correvano a casa per gli ultimi preparativi del pranzo, mentre gli uomini si fermavano per un “bicèrin” veloce con gli amici. E poi, come detto prima, ecco che si dava il via alla grande abbuffata !
 Al giorno d’oggi invece Natale ha ormai assunto significati di puro carattere commerciale: la frenetica corsa ai regali, la voglia di passarlo magari in vacanza in posti esotici per trasformarci anche noi in VIP, e tante altre “baggianate” hanno snaturato il significato della festa. Ma questa è purtroppo un’altra storia… rimane comunque per i più, l’appuntamento a tavola.

Lasciamo quindi il moderno Natale e facciamo un salto indietro di circa settant’anni - ottant’anni, ponendoci  tra il 1930 - 1950….
Fino a cavallo delle due guerre, se non anche per il decennio successivo, l’unica fonte per la cottura dei cibi (e anche per riscaldarsi, oltre che al calore dato dagli animali presenti nella stalla) era il fuoco provocato dalla combustione di ceppi di legna e di “maregasc”, alternati al carbone. Pentola principe della cucina era il “parieu”, il famoso paiolo in rame nel quale si cucinava la polenta, per poi trovare anche “padèll e padèlitt” di svariate forme e dimensioni. Il pentolame per cucinare era posto sopra il “foeug” del camino, attaccato alla cappa tramite una catena, oppure sulla “stüa” a legna o carbone (che comunque fu introdotta negli anni successivi), e qui s’iniziava a cuocere il cibo. Cibo prevalentemente formato da “süpa”, “minestar”, “pulenta”, “carna pouvera”, urtagg” e “öeuv”.

La varietà di scelta di cibi non era quindi molto ampia, famoso è il detto “se l’è no süpa l’è pan bagnàa”, solo con l’avvento più avanti di cucine a gas (molto più veloci nel cuocere il mangiare), un maggiore benessere economico e “l’imbastardimento” con altre cucine regionali, dovuta all’arrivo dei migranti nei nostri paesi in cerca di lavoro, si modificarono (in parte) le nostre ricette e tradizioni culinarie.
“Ul dì de Natäl” era già chiaramente vissuto il giorno prima, la vigilia. Alla sera della stessa s’iniziava a respirare l’aria natalizia con il passaggio nelle principali vie del paese della locale banda musicale, la quale eseguiva le “nenie” e la famosa “Piva”. Gli adulti passavano la notte a vegliare nel caldo della “stàla”, oppure in qualche osteria (soprattutto gli uomini). Denominatore comune era la presenza del vino, che scaldava e metteva allegria ! “Vers i des ùr”, ecco che saltavano fuori i primi piatti “de büseca” o qualche “cudeghìtt”, il tutto rigorosamente cucinato solo dagli uomini e accompagnati con una bella pagnotta “de pan giàld”. Perché la notte della vigilia cucinavano la “büseca” esclusivamente gli uomini ? Perché era credenza che le viscere delle donne, solo per quella notte, ricordano il travaglio della Maternità. Successivamente, verso le undici – undici e trenta, ci s’incamminava “vers la gèsa” per la messa di mezzanotte (l’usanza della messa notturna era la principale scelta dei nostri bisnonni e nonni, ma comunque molti altri invece partecipavano alla successiva messa mattutina).

Non era raro uscire poi da chiesa e imbattersi, nel caso di neve, nel fragoroso passaggio della “calauàa”, a quel tempo formata da un carro con la “cala” in legno trainato da cavalli. La giovialità toccava il suo culmine nel momento dello scambio degli auguri sul sagrato della chiesa, dove abbracci e saluti si sprecavano tra amici e conoscenti. Usanza era anche quella di recarsi in sacrestia a porgere gli auguri al parroco, vero conduttore della vita sociale di quel tempo.
Al termine della messa, iniziava l’attesa più lunga per i bambini: anche per loro, come per noi e i nostri figli (ci siamo passati tutti), il mattino successivo era atteso con trepidazione, nella speranza di trovare qualche regalo. Regali che chiaramente non erano numerosi e tecnologici come gli odierni, ma si limitavano a qualche  piccolo Pinocchio o bambolina di legno o di pezza, lavagnette, pallottolieri, trottole di legno oppure in qualche bel “bumbòn” da assaporare e gustare lentamente (cosa che però non avveniva mai, data l’ingordigia dei bimbi)….i più fortunati (e ricchi) potevano ricevere magari anche una biciclettina, che l’avrebbero poi portata sino all’età adulta (per poi passarla ai fratelli minori). Mio padre, all’età di 10 anni, invece ricevette una bellissima macchinina in metallo della Schuco, ancora oggi presente e funzionante a casa mia (ricordo che mi diceva che mio nonno, cioè suo padre, fece sacrifici economici tutto l’anno pur di acquistargliela !)

Vi erano alcune usanze particolari da rispettare durante la vigilia e la giornata di Natale. Usanze riconducibili a prima del 1900, in quanto anche mio padre mi ha sempre detto che fin da piccolo alcune di queste non le ha mai viste fare ne dai suoi genitori, ne dai suoi nonni.

VIGILIA

·         Stare a digiuno oppure mangiare solo di magro

·         A mezzanotte mangiare la “cassoeula” o in alternativa “büseca”

·         Non spazzare la casa appena benedetta dal prete

·         A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e con essa lavare i bambini, in quanto era l’acqua di Gesù Bambino (1ª versione)

·         A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e berla con tutta la famiglia, perché la si ritiene benedetta (2ª versione)

·         A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e bagnare i graticci destinati ai bachi da seta, altrimenti quest’ultimi moriranno (3ª versione)

·         Mettere una tazza di brodo e un lumino sul davanzale della finestra per i morti

NATALE

·         Non rifare i letti

·         Al suono dell’Ave Maria bastonare gli alberi da frutta, in quanto la credenza era quella per cui si avrebbe avuto un buon raccolto

·         Non leggere, tranne i libri delle preghiere, in modo da preservare la vista

·         Offrire un cucchiaio di risotto agli animali, così rimanevano benedetti anche loro

·         Offrire il vino di propria produzione

·         Ungere con la schiuma del brodo il ceppo che arde sul fuoco

·         Sulla spalliera del letto riporre un grappolo secco d’uva, in quanto portava fortuna

La mattina di Natale, per quelli che si recavano alla “Mesa Granda”, era vissuta come raccontato in apertura dell’articolo, per poi accomunarsi in maniera simile per tutti.
Il ceppo più grosso che si trovava nella legnaia era il predestinato per essere riposto nel camino, e il suo compito era di durare tutto il giorno (o il più possibile). La scelta del ceppo era fatta dal membro più anziano, e la sua accensione era quasi un rito cerimoniale, utilizzando anche talvolta rami di alloro o altre erbe aromatiche.

Le tavole erano imbandite con le tovaglie della festa (solitamente prelevate dal corredo matrimoniale), e i profumi della cucina iniziavano ad espandersi nell’aria, provocando forti languorini tra tutti i commensali.
Nell’attesa era tradizione consumare una piccola tazza di brodo “da còo da vaca”.

“Ul regioù” si recava personalmente in cantina “a ciapà ul vin quel bòn”, che poi in realtà non differiva da quello consumato quotidianamente, mentre solo più avanti negli anni prenderà piede l’usanza di accompagnare il dolce con la famosa “acqua de pòmm”, ovverosia un vino di tipo moscato proveniente  in prevalenza dall’Oltrepò Pavese, invece ora è sicuramente più famoso e in voga il moscato piemontese.
Con il giungere di tutti i familiari prendeva il via il pranzo. Convinzione particolare era quella che il cibo cucinato a Natale durasse più a lungo, tanto è vero che se ne avanzava in parte anche per Santo Stefano e per i giorni successivi. Questo fatto è comune anche al giorno d’oggi, non perché si crede che duri più a lungo, ma perché semplicemente ne abbiamo talmente in abbondanza che avanza anche per il giorno dopo.

A quei tempi l’antipasto vero e proprio non esisteva, al massimo si affettava del salame nostrano e come chicca natalizia si gustava qualche “saracch” comprata per l’occasione al “mercàa”. Si cucinava prevalentemente come primo piatto del risotto o in alternativa, soprattutto spostandoci verso Varese, si mangiava la “rustisciada” o la “rustaia”. La “rustisciada” era un fritto di “lacet, firon, cervela, luganiga” e abbondante cipolla, mentre la “rustaia” era fatta con lombo di maiale e “luganiga”, cotti a fuoco lento con trito di cipolla, rosolati con del burro. Il piatto clou era invece la carne, soprattutto il cappone o l’oca (altrimenti ci si accontentava di un semplice “pulastàr”).
“Bonn fest e bon Natal – e bonna carna d’animal” (proverbio saronnese)

Il cappone, che è un gallo castrato, veniva ben “ingrassato” per il Natale allevandolo nella “capounera”, una rudimentale gabbia in legno e rete metallica che dava poco spazio di movimento al malcapitato gallo, che nutrito forzatamente, diventava bello pasciuto nel giro di pochi mesi.
Sgozzato, spiumato ed eviscerato, veniva cotto sul fuoco per circa due ore, due ore e mezza. La perfetta cottura si capiva dalla morbidezza delle carni e dalla pelle croccante e leggermente bruciacchiata.

La classica variante era quella del cappone ripieno: si faceva un trito di carni (solitamente derivate dai tagli meno nobili di altri animali precedentemente macellati), si univa prezzemolo, aglio, uova, sale, rosmarino, erba salvia, noce moscata e qualche fetta sbriciolata di salame, e con pazienza e sapienti gesti si riempiva completamente l’interno del cappone.
Alternativa al cappone era l’oca, soprattutto nella zona del Saronnese. La preparazione è simile a quella del cappone, sia nella versione non ripiena che ripiena. “I sarònatt” nel ripieno aggiungono anche degli amaretti, giusto per dargli un tocco particolare in più. Un’interessante ricetta tradizionale di oca alla “gerenzanese” la troviamo ben descritta qui, sul sito di Pierangelo Gianni.

Come sapete, i nostri vecchi erano maestri nel non buttare nulla per quanto riguarda gli animali macellati. Infatti le interiora del cappone (o oca), tra cui fegato, cuore, e viscere, una volta ben pulite erano cotte per circa un’ora tra loro, creando un intingolo profumatissimo. Questo intenso profumo lo ricordo benissimo anch’io, in quanto finché i miei nonni hanno avuto il pollaio, cucinavano queste particolari parti dell’animale. Dico la verità: non ho mai avuto il coraggio di assaggiarli, ma il profumo forte e deciso, era veramente invitante.
Ma per le feste, la parte principale dell’animale che veniva riutilizzata era il collo. Una volta ben pulito anche lui, era riempito di ripieno e cotto assieme al cappone. Tagliato poi a fette, era la vera specialità della giornata. Ancora oggi a casa mia viene fatto, ed è davvero buono !

Non tutti però avevano l’usanza di cuocere arrosto il cappone o oca natalizi. Venivano cotti anche “a lèss”, risultando così meno saporiti ma sempre pur molto teneri (testimonianza di mia madre: “a cà mia gh’era menga tropp da rost, la mama Giuanina la faseva sempar ul lèss)…
La carne era accompagnata con della mostarda, sempre presa solo per quest’occasione. Ci si recava presso la cooperativa o al mercato con una piccola “sidèla”, la quale veniva riempita fino alla quantità desiderata dal commerciante che la vendeva. Quest’ultimo la prelevava da un enorme “mastell” ricolmo della stessa, e con il “pedrioeu”serviva i clienti.

Il pranzo si svolgeva con ritmi molto lenti e lunghe pause. Questo sia per riprendere appetito, sia per dare spazio alle lunghe e innumerevoli discussione che si aprivano a tavola (la classica tombolata natalizia prenderà piede molto più avanti).
Dopo la carne, ci si permetteva da “bucunà un po’ da strachìn con un tuchelitt da pan giàld, giüst par netàa la bùca”! “Ul strachìn” era praticamente l’unico formaggio che si mangiava a quell’epoca nella nostra zona. Nel sud della provincia di Varese, non vi era l’usanza di fare del formaggio, il latte veniva utilizzato principalmente per ottenere il burro (tramite la famosa “pènagia”), ma soprattutto era destinato ai vitellini, e non alle persone.

Come frutta, noci, “pòmm” e fichi secchi (tutta roba nostrana chiaramente) erano quelle principalmente servite, poi con gli anni arrivarono arance, mandarini, spagnolette e dopo le conquiste coloniali anche datteri e banane.
Si giungeva così al dolce, che chiaramente era semplicissimo: la classica “brusèla”, pane a cui si aggiungeva fichi o uva, che chiaramente, dato il periodo, erano stati fatti essiccare. Il panettone classico giunse ben più tardi, nel dopoguerra, con tante altre nuove novità (non solo culinarie) che i nostri bisnonni fecero in tempo ad apprezzare per non molto tempo, data la loro età ormai avanzata. Anche se per onestà, per quanto riguarda i dolci, non posso esimermi dal ricordare il panettone saronnese, “ul Marmott”. Pare che questo dolce, derivato dal “pan giàld” al cui impasto si aggiungeva burro, uova, zucchero e uva, a Saronno fosse già citato in un articolo fin dal 1839. Inizialmente la forma era tozza, schiacciata, poi una volta iniziata una maggiore produzione, assunse la classica forma del panettone. Non è escluso quindi che a quel tempo un simil panettone fosse in uso nel circondario di Saronno, il problema è che poi anche a Saronno ne scomparve l’utilizzo, e quindi del “Marmott” se ne persero le tracce. Solo ultimamente si sta cercando di riproporne la ricetta e la sua riproposizione di dolce a livello locale. Ecco gli ingredienti della ricetta reinterpretata dal vecchio panificio De Micheli:

Farina gialla di mais hg. 2
Farina di segale integrale hg. 3

Farina di segale di frumento hg. 0,5
Fichi secchi tagliati a strisce hg. 2,5

Noci lievemente sminuzzate hg. 2,5
Mele sbucciate e affettate n° 3

Zucchero hg. 3

Burro hg. 1,5

La loro giornata di Natale , dopo ulteriori ore passate a discutere tra un “bicèr e l’altar” giungeva così al termine. I bambini esausti dalla baldoria fatta si addormentavano felici, mentre i “vecc” , malinconicamente, facevano notare che anche quel Natale era passato in un battibaleno, pregando “ul Signur” di fargliene vivere un altro ancora…

Rivarà stù gran Natàal
l’è una fésta in generàal

a la mattina ‘n büsechìn
cunt adrée un tazzìn de vin

al mesdì un bèl capòn
cunt adrée un quaicòs de bòn

a la sìra ‘n panetòn
vèm in lètt a tamburòn

(poesia di Massimo Pirovano - Castello Brianza)

lunedì 9 dicembre 2013

Passeggiata notturna nel bosco...

Tra le svariate proposte del "vulcanico" Franco Formica, esperta guida di montagna e naturalista incallito, la scorsa settimana vi era quella di fare una camminata notturna nel parco del Ticino in zona Malpensa.


Conosco Franco da alcuni anni, da quando m’introdusse nel mondo del Nordic Walking e dell'Orienteering, ed è sempre un piacere rincontrarlo, soprattutto per vivere la sua carica umana e sentirlo raccontare le sue mille avventure, aneddoti e informazioni riguardanti l'ambiente naturale.

E così, dopo aver compiuto l'iscrizione via mail alla serata, ecco che con Sabrina puntiamo il muso della macchina in direzione Malpensa: il ritrovo è previsto per le ore 19,30 presso il centro parco "Ex dogana austroungarica" posto in località Lonate Pozzolo, subito dopo l'aeroporto.
Percorriamo la superstrada SS336, a quell'ora piuttosto sgombra dal traffico, imbocchiamo l'uscita di Oleggio-Busto Arsizio, e dopo aver incrociato l'abitato di Tornavento, una larga strada sterrata ci conduce al parcheggio dell'ex dogana. L'edificio è proprio un ex posto doganale riadattato nel corso degli anni a cascina, per poi trasformarsi definitivamente in una delle sedi del parco del Ticino. Al suo interno trovano spazio un piccolo museo dedicato al parco, laboratori, una rivendita di prodotti locali, e al piano superiore, uno spazio dove poter organizzare manifestazioni e banchetti.

Al nostro arrivo molta gente che parteciperà con noi alla passeggiata, è già presente sul piazzale antistante alla sede. Entriamo nel locale di rivendita dei prodotti, dove Franco sta raccogliendo i nominativi dei presenti. Quando è il nostro turno, noto con piacere che, nonostante le centinaia di persone che frequentano i suoi appuntamenti, quando mi vede si ricorda bene di me, salutandomi calorosamente. Mentre il piccolo appello prosegue, sbirciamo nel locale shopping: latticini, conserve, salumi, frutta e verdura freschissime, fanno bella mostra di sé sui banchetti allestiti. Sono davvero invitanti, e, infatti, un bel salame e cotechino nostrani "finiscono" nel bagagliaio della nostra macchina. Avremo poi l'occasione di assaggiare il tutto nella cena che è prevista a fine passeggiata sempre nei locali del centro.
Immancabilmente la fase di attesa dei partecipanti si prolunga oltre il dovuto, ma si sa che, purtroppo, gestire un alto numero di persone provoca qualche intoppo: alla fine saremo più di cinquanta persone a seguire Franco nel bosco.
Per quanto riguarda i partecipanti, devo dire che ve n'erano di tutte le età: bambini, ragazzi, adulti e "vecchietti", chi armato di bastoncini da Nordic e chi con pila frontale, sono pronti per avventurarsi nel buio. Caratteristica comune a tutti è l'abbondante copertura con giubbotti, cappelli, guanti e sciarpe per ripararsi dal freddo. La serata è limpida, una bellissima stellata ci accompagnerà per tutto il percorso, ma anche il freddo è pungente...

Bando alle ciance: Franco dà il via, trasferendo il gruppo all'esterno. Lui farà da capo guida, mentre un suo uomo fidato chiuderà la fila, entrambi muniti di walkie talkie per tenersi in contatto nel caso vi siano problemi.
Si parte...i bimbi chiaramente scattano in testa al fianco di Franco...io e Sabri rimaniamo "intrappolati" verso la coda del gruppo, ma non essendo una passeggiata agonistica ce la prendiamo comoda, "assaporando" i rumori del bosco e le chiacchiere dei nostri compagni !
Superiamo un ultimo pezzo di strada asfaltata ed ecco che ci buttiamo in un piccolo sentierino nel bosco. Sabrina è dotata di pila, quindi riusciamo a vedere il terreno su cui poggiare i piedi. Ai nostri lati le classiche robinie popolano questa zona boschiva. Il fascio di luce delle pile, puntato in lontananza, illumina piccoli squarci di notte...sagome tetre di alberi caduti o rami dai contorni particolari suggestionano i presenti...non nego il fatto che essere in gruppo dia sicurezza, perché inoltrarsi di notte nel bosco da soli, probabilmente incute un po' di paura !

Più andiamo avanti, e più il gruppo si sgrana. Il sentiero si stringe sempre più, fino a diventare una piccola traccia nel sottobosco...perdo il contatto con Sabrina, e rimango "scollato" dagli altri sia davanti sia dietro. Non ho alcuna pila, quindi ho solo il chiarore della luna che può illuminare i miei passi...è strana la sensazione che provi quando non riesci a capire dove poggiare i piedi...insicurezza e timore ti portano a essere più cauto...ma ciò non toglie il piacere di essere a contatto con la natura...

Mi guardo lentamente intorno: si scorgono fiochi bagliori di luce...sono i miei compagni che sono avanti a me di un centinaio di metri...fruscii silenziosi mi avvolgono, provocandomi qualche sobbalzo di paura...ma sono semplicemente felci e rami che urto inavvertitamente al mio passaggio...uno sbattere di ali e una sagoma che velocemente prende il volo m’indica la presenza di qualche volatile notturno...con il passare dei minuti sento quasi di appartenere a quest'ambiente: i miei occhi si sono abituati all'oscurità, i miei passi divengono più svelti e decisi, trasmettendomi sicurezza. Ora so dove andare, come muovermi, cosa evitare...sono sensazioni che salgono dall'interno, istintive, risvegliando l'ormai parte "avventuriera" che dorme in noi, soffocata dalle troppe comodità odierne che ci spingono ad adagiarci a una vita tranquilla, sedentaria, noiosa...

Ma purtroppo il mio "ambientamento" in natura dura poco...

In lontananza scorgo le luci di Malpensa. Un candido chiarore che tende all'arancione mi fa capire che il nostro peregrinare ci ha portato in prossimità dell'aeroporto. Ma (purtroppo) non è l'unico segnale che lo fa capire...il silenzio è squarciato da boati fragorosi: sono gli aerei che rullano e decollano sulla pista...un odore dolciastro quasi nauseabondo ti entra nelle narici...è il kerosene usato come carburante, che bruciando diventa quasi "zuccheroso"...poi all'improvviso il bosco s’illumina quasi a giorno: siamo finiti proprio sulla direttrice di atterraggio degli aerei. A non più di cento metri dalla mia testa, a distanza di alcuni minuti, svariati jet con tutte le luci di posizione accese ci passeranno sopra, per poi scomparire all'orizzonte andando a toccare terra più avanti.
Rimango un poco costernato, perplesso: pensavo di fare un tranquillo giro nella natura, ma mi ritrovo nel mezzo di un caotico traffico aereo...
Supero il momento di smarrimento, e raggiungo il gruppo in prossimità di un'ampia radura.
Franco ci fa notare che stiamo entrando nella brughiera, ambiente ben noto e famoso di questa zona. Brughiera da brugo, ovverosia Calluna Vulgaris, che qui troviamo in abbondanza. Arbusto che cresce spontaneo nelle nostre Prealpi, e che mi riporta alla mia gioventù: nella brughiera di Appiano, con mio padre facevo grandi raccolte di Cantharellus Lutescens, un piccolo fungo a forma di trombetta che è davvero ottimo...poi purtroppo la brughiera è stata soppiantata da una pineta, e il mio caro Lutescens è (quasi) sparito...

Ci rincamminiamo: il sentiero che attraversa la brughiera è ben largo e facile. L'unico inconveniente è dato dal fatto che pare di camminare su di un cartone. Infatti, il terreno si è gonfiato a causa della brina che si è sviluppata al suo interno, subito sotto lo strato superficiale. Si è quindi creata una specie di bolla che al nostro passaggio provoca il cedimento del terreno, dando la sensazione che si prova camminando appunto su di un cartone.

Dopo qualche minuto lasciamo la brughiera e ci riaddentriamo nel bosco: robinie, faggi e querce ci accompagnano in questo tratto. A un certo punto, il tutto è tagliato di netto da una lunghissima e dritta striscia di cemento. Qui Franco si ferma e ci spiega. Questa lingua di cemento è la vecchia pista dell'aeroporto militare tedesco che esisteva durante la seconda guerra mondiale (oltre a quello militare di Malpensa). La pista, nonostante fosse ben presidiata dall'alleato germanico, fu però bombardata a più riprese dagli anglo-americani, rendendola così inservibile. Il suo tracciato fu riutilizzato durante la costruzione del Terminal 1 di Malpensa (ma con scopi ben diversi dal precedente utilizzo): il progetto del nuovo terminal prevedeva che l'allacciamento fognario attraversasse il parco del Ticino descrivendo un percorso alquanto tortuoso, che avrebbe comportato l'abbattimento di centinaia di alberi. L'ente parco, per salvaguardare il patrimonio naturalistico, propose quindi di far scorrere la rete fognaria al di sotto della lunga pista "tedesca", evitando così un’inutile”strage" di piante, visto che già essa attraversava i boschi.
Franco ci regala un ulteriore aneddoto: è particolarmente curioso attraversare il bosco nell'intersezione con la pista tedesca durante una nevicata. Sì perché la neve attacca a terra in qualsiasi punto tranne che sulla pista, in quanto il calore dato dal passaggio della fogna ne impedisce l'attecchimento. E quindi uno si ritrova davanti ad un paesaggio completamente imbiancato tranne che per questa lunga striscia, che rende il tutto piuttosto insolito e particolare.

Il nostro percorso continua fino allo "spiazzo delle arnie". L'ho chiamato io così perché all'improvviso su uno dei lati del sentiero, un'ampia radura accoglie una trentina di colorate arnie. La potente torcia di Franco (i professionisti si riconoscono...) illumina le piccole casette...in questo periodo le api sono nella fase di riposo, ben riparate all'interno della loro struttura. Queste arnie sono di proprietà di un'azienda agricola della zona, il cui miele è in vendita presso il negozio del parco. Per la gioia dei piccini (ma anche dei grandi), la nostra guida ci descrive brevemente ma in maniera esaustiva la vita all'interno e all'esterno di un'arnia, regalandoci uno spaccato di vita di questi piccoli animali. E' sempre un piacere ascoltare Franco, perché oltre alle conoscenze personali che ha e che distilla sapientemente, è una persona molto piacevole...la sua parlata decisa ma allo stesso tempo dolce, la sua cadenza ben scandita da tempi e ritmi adeguati nel cogliere e sottolineare aspetti e temi importanti rapisce e affascina l'ascoltatore, trascinandolo nei suoi discorsi e racconti con curiosità...!

Si riparte: il sentiero piega a destra, e in circa duecento metri siamo fuori dal bosco. Ci aspetta un piccolo tratto d'asfalto, per poi rimetterci nel famoso sentiero del Gaggio.
Si tratta di un ampio sentiero in terra battuta, ciclopedonale, della lunghezza di circa 2 km che rientra nella zona boschiva, fino a riportarti all'ex dogana. Ma la particolarità del sentiero è di essere una specie di libro a cielo aperto nel quale viene raccontato il nostro passato attraverso l'esposizione di articoli e strumenti agricoli (e non) appartenenti all'epoca dei nostri nonni e bisnonni.

Per me che sono amante di queste cose, è una manna dal cielo. Il tutto è aperto dal classico e indimenticato gelso. Ancora giovane, ma già piuttosto robusto e grandicello, fa bella mostra di sé, aprendo così il sipario alle successive tappe che ci aspettano.

Distanziati di circa 100/150 metri l'una dall'altra, apposite postazioni espongono svariati oggetti della vita contadina di fine '800 - inizio '900.
Forconi, falci, mastell, la rapèga, la ranza, la carèta, vecchi aratri da attaccare al cavallo sono tra le tante cose esposte, e che purtroppo causa oscurità e leggero ritardo sulla tabella di marcia, non ho la possibilità di vedere con la dovuta calma (c'è da tener conto che comunque la visita di questa esposizione non era prevista nella serata). Sicuramente provvederò a visitare il tutto in un'altra occasione, in modo da ritagliarmi il tempo necessario per guardare con tranquillità e fare anche qualche foto.

La fame inizia a "aggredire" il gruppo, e quindi il passo aumenta...incrociamo ancora la pista tedesca e un altro sentiero, dove vi è posta l'indicazione che a 200 metri c'è una vecchia postazione militare visitabile, ed ecco che giungiamo al caseggiato di partenza. Ordinati, in fila, saliamo le scale che ci portano al piano superiore, dove si apre un ampio salone con tavoli apparecchiati: la nostra cena ci attende !

Con Sabrina troviamo posto su uno dei tavoli in fondo al locale...con noi siederanno una simpatica famigliola e un signore che ci regalerà preziose perle sulla sua esperienza nella Protezione Civile in occasione del terremoto in Umbria ed Emilia-Romagna (tanto di cappello a queste persone che volontariamente si prestano per aiutare la gente in difficoltà)...!
Una volta che tutti hanno trovato una sistemazione, si parte con la cena. L'antipasto è a buffet...formaggi, salumi e salse d'accompagnamento, tutti prodotti da aziende locali, finiscono "velocemente" nei nostri piatti, e con altrettanta "velocità" e voracità sono trangugiati...devo dire che il tutto era ottimo, soprattutto i salumi meritavano davvero...
Tra una chiacchiera e l'altra arriva il piatto clou: polenta e costine.
Una polenta morbidissima con un succulento intingolo nel quale erano immerse le costine, coronava degnamente la serata. Si sa che è sempre difficile cucinare per grossi quantitativi di persone, ma sia polenta che costine erano cotte al punto giusto, e quest'ultime molto saporite. Il tutto è stato accompagnato da un vino rosso molto giovane, poco strutturato, davvero semplice, ma che comunque si è, come si dice, fatto bere !

Insomma, alle 23,30, dopo una bella serata, è il momento di tornare a casa. Salutiamo la nostra tavolata e l'amico Franco, il quale spero di rivedere presto in qualche altro suo appuntamento...

Saliamo in macchina e riprendiamo la SS336...scambiamo le nostre impressioni sulla passeggiata, ed entrambi conveniamo che è stata davvero bella, l'unica pecca è forse la locazione, troppo vicina e disturbata dalla presenza dell'aeroporto, e probabilmente anche un po' troppo numerosa la compagnia....forse se fossimo stati in meno, la cosa sarebbe stata più "intima" e meno dispersiva.

Però è sicuramente un'esperienza da ripetere, magari con gli amici (e magari d'estate): passeggiata nei boschi di Gerenzano e poi una bella grigliata per tutti ! Perché no ?!

giovedì 14 novembre 2013

Visita alla Branca, dove nasce il Fernet...

Una strada di Milano percorsa tante volte per andare verso le mete della mia gioventù (discoteche e pub dei tempi che furono) mi ha regalato la scorsa settimana una bellissima serata...la visita alla Branca, storica azienda milanese che produce il Fernet (oltre a tanti altri liquori e distillati).
Posta in zona Bovisa, in tutti questi anni mi ha sempre incuriosito...l'enorme scritta Branca spicca sui muri ormai ingrigiti dallo smog, che altrimenti sarebbero piuttosto anonimi, nascondendo una storia ormai più che centenaria.

Ma facciamo un passo indietro: Sabrina, grazie alle sue tante amicizie, viene a sapere che c'è la possibilità di fare una visita serale al museo e alla fabbrica. Ok, non ha neanche bisogno di chiedermelo, prenota subito senza tanti problemi e via...martedì, ore 20.45, ci presentiamo all'ingresso della Branca.
La portineria, come l'intero edificio, pare ferma a un secolo fa. Tutto è rimasto identico, le spesse porte d'ingresso di legno con ampi vetri ci portano all'interno della Branca: un gentile custode ci indirizza presso l'attigua sala d'attesa, una piccola stanza dove sono esposte alcune bottiglie di Fernet e poster pubblicitari molto vecchi.
Siamo i primi, ma nel giro di qualche minuto arriveranno circa una ventina di persone (tra cui anche alcuni argentini, poi capirò il motivo della loro presenza)...è il gruppo con cui condivideremo la visita.
Protagonista indiscusso della serata è Marco Ponzano, simpaticissimo e istrionico direttore del museo...con molta affabilità ci mette subito a nostro agio, iniziando a guidarci lungo il percorso che si snoda nei locali dell'azienda.
Un'ampia scalinata ci porta al piano superiore, dove inizia la parte museale. Marco introduce brevemente la storia dell'azienda, fondata nel lontano 1845 da Bernardino Branca, a cui si sono poi succeduti i suoi eredi. Attualmente si è arrivati alla quinta generazione di questa famiglia alla guida del gruppo...Marco tiene a precisare che è esclusivamente di proprietà loro, non vi è alcuna partecipazione di banche o investitori esteri, e questo sinceramente fa piacere, visto che ormai il nostro compartimento industriale è continuamente bistrattato da queste categorie...
Inoltre ci racconta che il primo nucleo della fabbrica si trovava in zona Corso Como - Porta Garibaldi, dove ora sono stati costruiti gli altissimi e moderni grattacieli di ultima generazione. Poi però la famiglia decise di spostarsi in periferia, per costruire uno stabilimento più moderno (anno 1908). Scelse quindi la zona della Bovisa, oltre la quale, a quel tempo, vi era solo campagna. Sorrido fra me stesso, pensando che ormai oggi la Bovisa fa parte integrante della città, e che le campagne in quel luogo sono ormai un lontano ricordo...
Marco ci regala altre informazioni: fino a metà anni '50, in Branca vi lavoravano circa 900 persone, creando una sorta di piccola città nella città. Poi con l'avvento dell'automazione, il personale si è sempre più ridotto, fino ad arrivare alle 100 persone odierne, di cui 40 in produzione. Basti pensare che una sola persona oggi, con l'ausilio dei sistemi informatici, riesce a controllare l'intera produzione del Caffè Borghetti, altro loro storico marchio.
Attualmente esistono 2 siti produttivi: Milano e Buenos Aires. Quest'ultimo commercializza fino a 40 milioni di bottiglie di Fernet, facendone una tra le "bevande" più apprezzate in Sudamerica. Da qui l'adorazione degli argentini per il Fernet. Mentre noi lo preferiamo come digestivo, loro lo bevono principalmente come aperitivo, poichè alcune delle spezie presenti hanno la capacità di dilatare lo stomaco, preparandolo quindi ad accogliere il cibo. Gli argentini presenti, oltre che a confermare il tutto, ci dicono che è ideale berlo prima di un asado, famosa carne grigliata locale !

Perchè l'idea del museo ? In realtà è molto semplice...la famiglia circa 10 anni fa ha deciso di raccogliere cimeli e documenti  che potessero raccontare la loro esistenza centenaria...una collezione che va a raccontare lo sviluppo industriale, culturale e sociale da fine '800 al giorno d'oggi, facendo rivivere al visitatore pagine storiche del passato e del presente.
Percorriamo quindi lentamente il lungo corridoio alle cui pareti sono appesi i ritratti del fondatore e della sua famiglia per arrivare a una spaziosa sala dove inizia l'esposizione di vecchi attrezzi da lavoro in uso nella fabbrica. Un enorme mortaio di rame, con relativo ferro per polverizzare le spezie, fa bella mostra di sé. Sulla sua circonferenza vi è un ampio segno di deformazione, causato dall'appoggio del braccio dell'operaio che rimestava le spezie...m'immagino la fatica che si doveva fare a eseguire quel lavoro !
Quel segno ha alimentato nel corso degli anni la leggenda del nome Fernet: essendo un punto d'appoggio, era sempre lustro...da qui fu ribattezzato "ul fer net", e quindi venne dato questo nome al liquore. In realtà, seppur bella e simpatica questa leggenda, soprattutto per me che sono amante del dialetto, non è vera. Il nome Fernet deriva dal cognome del socio d'affari svedese di Bernardino Branca...a lui si deve questo nomignolo particolare !

Alambicchi, bilance, piccoli e vecchi gadget ci immergono in un'atmosfera da proibizionismo americano anni '20...ma ecco che piano piano intensissimi profumi pervadono l'aria: dietro a noi un'enorme botte è stata trasformata in un portaspezie...ne raccoglie ben 22, che non sono poi tutte quelle necessarie alla produzione del Fernet, perché in realtà sono in totale 27. Cinque di esse rimangono sconosciute...sono quelle che concorrono alla composizione della ricetta segreta del Fernet ! Queste cinque spezie sono ancora oggi segretamente dosate dall'ultimo discendente di famiglia in un apposito stanzino a cui ha accesso solo lui !
Mirra, china, aloe, rabarbaro, zafferano, cannella, liquirizia e tante altre spezie quasi sconosciute inebriano l'olfatto e colorano sgargiantemente l'enorme botte...hanno le forme più svariate, alcune sembrano cipollotti, altre sono radici, altre ancora sono di forma indefinita...davvero un bellissimo e particolare spettacolo, non avendo tutti i giorni l'occasione di vederle...
Proseguiamo nel corridoio...vecchi calendari sono appesi alle pareti, libri paga anni '30 ci porgono nomi, cognomi e stipendi dell'epoca, recipienti di ogni forma e tipo scorrono davanti a noi sul lato opposto...si arriva poi in una particolare zona del museo, dove sono stati ricreati vecchi ambienti della fabbrica.
Un ufficio del personale anni '40 ci fa vedere arredamenti e oggetti dell'epoca, con la peculiarità di avere la sedia della persona a colloquio con il responsabile non di fronte a quest'ultimo ma di lato, forma riverenziale in uso a quei tempi, soprattutto anche per accentuare la differente posizione gerarchica.
Qualche metro più in là si trova il laboratorio chimico dove venivano assemblate le spezie, ricavandone la ricetta segreta del Fernet...
Si succede poi il laboratorio sartoriale. La fabbrica aveva al suo interno una piccola sartoria, che provvedeva a fornire giacche o tute da lavoro fatte su misura per ogni dipendente. Questi indumenti si distinguevano l'uno dall'altra in base al colore, il quale identificava l'appartenenza a uno specifico reparto.
Ultimo ambiente ricreato è quello della falegnameria. Questa era di rilevante importanza in azienda, perché provvedeva alla creazione e al mantenimento delle botti. Oggi sono presenti due maestri bottai, mentre nel passato si arrivava a contarne fino a quindici.

Arriviamo poi alla saletta dove sono esposte le bottiglie, in svariati formati, di tutti i distillati e liquori appartenenti alla Branca: Fernet, Punt e Mes, Carpano, Caffè Borghetti, Grappa Candolini e altri ancora sono tra i nomi rientranti nel gruppo. Ma la cosa che colpisce di più è l'armadio posto al loro fianco: enorme con ampie vetrate, voluto personalmente dalla famiglia, espone centinaia e centinaia di falsi Fernet, provenienti da tutto il mondo ! E' come un monito, molti possono farlo, ma solo uno riesce ad avere successo, che è l'originale ! Segno anche che, con tutte queste imitazioni, il prodotto funziona !

Superiamo l'armadio dei "falsi" e giungiamo alla zona bar, dove ci viene offerto da bere. Si può scegliere cosa bere tra tutte le etichette della Branca...personalmente scelgo il brandy Magnamater che è stato commercializzato in occasione dei 120 anni della botte madre, e devo dire che era veramente buono !
Lasciando alle spalle il bar, una bellissima Balilla sponsorizzata Fernet fa bella mostra di sé, divenendo soggetto fotografico da parte di tutti i presenti.

Dopo la pausa "beverina", è il momento di visitare la fabbrica vera e propria. Superiamo un portone ed entriamo nel magazzino delle spezie. Che dire, sembrava di essere chiusi in una bottiglia di Fernet, talmente era forte il profumo di tutti i sacchi di spezie accatastati ! In un angolo vediamo anche il famoso stanzino con i vetri oscurati dove il signor Branca in persona prepara la ricetta con le cinque spezie segrete...quasi quasi potrei rubargli il segreto (chiaramente si scherza) !
Da qui passiamo al reparto dove viene preparato il Caffè Borghetti: grosse macine accolgono i chicchi di caffè per trasformarli in polvere molto fine...da qui il tutto è trasportato in enormi caffettiere che trasformano il caffè in sostanza liquida, per poi essere immagazzinata in tini d'acciaio. Dopo qualche giorno di sosta, il caffè è pronto per essere imbottigliato nei classici "barattolini" di plastica o in bottigliette di varie capacità.

E poi ecco la sorpresa: in un locale attiguo, c'è lei, la "botte madre". Diametro da 6 metri, lunghezza anche lei 6 metri, è immensa: nella mia vita da sommelier, pur avendo visitato svariate cantine, non avevo mai visto una botte così grande. Fatta con rovere di Slavonia, ha una capacità di circa 84.000 litri, davvero impressionante. Marco ci dice che è la botte più grande d'Europa, e non fatico a credergli. Data la sua età, risulta però avere necessità di molta manutenzione, ed è qui che entrano quindi in gioco i maestri bottai, eseguendo le riparazioni del caso. Che dire, siamo davanti ad uno spettacolo maestoso e "mostruoso". Spettacolo che si trasforma e offre un brandy "centenario": infatti la botte rimane sempre piena almeno per 1/3, quindi al suo interno si trova anche il brandy con cui è partita la produzione nel secolo scorso !

Dalla sala della "botte madre", tramite una ripida scala a chiocciola, scendiamo nelle cantine: mai e poi mai avrei pensato che nei sotterranei di Milano avrei potuto trovare centinaia di botti e tini dove brandy, grappa e Fernet riposano in attesa di essere commercializzati.
Altissimi, con la classica lavagnetta riportante scritto di gesso la data di preparazione, travaso e capacità, emanano piacevoli profumi di distillato. Le poche fioche luci presenti nelle cantine in realtà non fanno capire la vastità dei locali, ma basta avere un po' di coraggio, addentrarsi nel buio dietro una fila di botti per scoprire altre infinite file di recipienti ! Davvero impressionante !

Arriviamo così alla fine del nostro percorso. Le immense scale ci riportano all'ingresso della portineria, dove Marco ci congeda calorosamente...davvero un gran personaggio (ha curato anche la ristrutturazione della Torre Branca e si occupa della gestione del Just Cavalli Cafè, il bar ai piedi della torre). Ci voltiamo un'ultima volta a guardare le vetrate che danno verso il cortile della fabbrica, a quell'ora deserto e completamente fradicio d'acqua (un temporale si sta abbattendo su Milano). Le infrastrutture "retrò", sotto la pioggia, assumono un aspetto malinconico, quasi di abbandono...ma è solo apparenza...fortunatamente, sin dal mattino dopo, il nostro Fernet riprenderà a essere prodotto a pieno regime, regalandoci un'eccellenza italiana di cui essere fieri !

Usciamo, la Bovisa è deserta e silenziosa...sembra quasi di ritornare al 1908, dove qui era tutta campagna...ma basta che scatti il verde del semaforo dietro l'angolo per vederci sfrecciare davanti a tutto gas una fila di macchine rombanti...no, mi sono sbagliato...anno 2013, semicentro di Milano...le cose in cent'anni sono davvero cambiate !

Di seguito alcune foto scattate durante la visita, mentre in fondo troverete la ricetta del Fernandito, cocktail semplicissimo a base di Fernet e Coca Cola che impazza in Argentina !

La vetrinetta in sala d'attesa

Vecchie pubblicità



I capostipiti della dinastia Branca



Il vecchio timbra - cartellini

Un'antica pesa






La botte delle spezie




Il grosso mortaio chiamato "fer net"



Calendario del 1893


Il lungo corridoio del museo

Libro paga anni '30

Ufficio personale



Laboratorio chimico



La sartoria

Stemma Branca sulla giacca

Falegnameria



Maestri bottai


L'armadio dei falsi

L'originale


Altri falsi

La vecchia Balilla

Il bancone del bar

Questa poster lo voglio...bellissimo per me che sono un fungiatt !



Un'aquila fatta di mignon di Fernet



Il magazzino delle spezie

Lo stanzino dove Branca in persona aggiunge le 5 spezie segrete !

Reparto di produzione del Caffè Borghetti

Un'enorme caffettiera



A sinistra, sulle scale, Marco Ponzano, il nostro cicerone


Stock di bottiglie

La "botte madre"






La cantina del brandy






Si entra nella cantina del Fernet




L'immensa tromba delle scale


Il cortile interno

La ricetta del Fernandito

Questo cocktail è davvero di facile preparazione: come ci ha spiegato Marco Ponzano, si versa un dito di Fernet nel bicchiere, e poi Coca Cola a piacere, aggiungendo cubetti di ghiaccio (il tutto è anche ben pubblicizzato sul relativo sito, facendoci capire che dietro l'operazione Fernandito vi è anche una buona dose di marketing). Le dosi esatte dovrebbero essere 1/5 di Fernet e 4/5 di Cola, perlomeno queste sono le dosi italiane, mentre per gli argentini vale l'esatto contrario !

Ecco il Fernandito da me preparato a casa...

Bottiglia nuova di zecca di Fernet, nel suo elegante astuccio...


Arriva l'altro ingrediente del cocktail, la Coca Cola...


Versiamo circa 1 dito di Fernet nel bicchiere...


E aggiungiamo la Coca Cola...



Qualche cubetto di ghiaccio, una piccola "shakerata", che forma una bella e abbondante schiuma...ed ecco che il Fernandito è pronto !



Non resta che berlo, e vi assicuro che è davvero ottimo !