domenica 15 febbraio 2015

Champagne Cuvée du Mélomane, risotto agli ovoli e torta di mele "Tonina"...

Lo scorso autunno un caro amico "fungiatt" mi ha regalato un vaso di ovoli secchi da lui raccolti in Trentino.

L'ovolo, il cui nome scientifico è Amanita Caesarea, è ritenuto tra i migliori funghi commestibili esistenti (e anche tra i più ricercati e costosi sul mercato), superiore anche ai classici porcini come Edulis, Aereus e Aestivalis (discorso a parte meriterebbe invece il paragone con il tartufo).

Personalmente ritengo che il metro di giudizio in questi casi dipenda sempre dai gusti personali, ma è fuori dubbio che la Caesarea sia effettivamente tra i commestibili più rinomati e gustosi.
Conosciuta fin dai tempi di epoca romana, sorprende per il bellissimo colore aranciato del cappello. Con le "sorelle"Crocea, Vaginata, Fulva, Rubescens e qualcun'altra ancora, fa parte delle Amanite commestibili. Sì perché la maggior parte di noi ha sicuramente presente che le Amanite sono funghi mortali o velenosi: Phalloides, Verna, e Muscaria sono assolutamente da evitare, al pari di tante altre specie della famiglia delle amanitacee. In realtà, come in ogni specie fungina, ci sono i commestibili e i non commestibili. Per esempio anche tra le specie dei boleti, dove troviamo i porcini, ci sono specie tossiche, come per esempio il Rhodopurpureus o il famigerato Satanas.

Passiamo oltre alle disquisizioni prettamente tecniche degli ovoli e funghi in generale, e affrontiamo il seguente dilemma: come avrei potuto cucinarli ?
La classica ricetta per gli ovoli è di affettarli freschi e mangiarli in insalata con un filo d'olio, limone e pepe (anche se in realtà ce ne sarebbero a bizzeffe di succulente ricette per questi funghi). Il mio problema è che però io li avevo secchi. Pensa e ripensa, sono arrivato alla conclusione forse più scontata e logica, ma ben ponderata: risotto agli ovoli.
Una ricetta semplice da eseguire, ma la scelta è caduta su questo piatto per il seguente motivo: a casa mia il risotto ai porcini è un classico, mangiato spesso e volentieri almeno una volta la settimana. Avendo la possibilità di mangiare degli ovoli (secchi), cosa che non capita tutti i giorni, ho deciso di farli con il risotto per sentirne e capirne la differenza con i porcini a parità di ricetta eseguita.

Pronti via: si prepara il brodo di carne, con cipolla, sedano, carota e un bel pezzo di biancostato di vitello. Nel frattempo, in una marmitta capiente, si mettono i funghi con acqua calda per circa un'ora, in modo da lasciarli ammorbidire.

 

Si prepara una battuta di cipolle, che faremo rosolare in pentola con olio extravergine d'oliva, dopodiché metteremo il riso, lasciandolo tostare per qualche minuto. Per il riso ho utilizzato un classico Carnaroli ma davvero di buona qualità, acquistato tempo fa presso l'azienda Corte Facchina di Nosedole (MN) durante una gita fuoriporta fatta con l'Associazione I Buoni Frutti, di cui faccio parte (qui potete trovare il racconto di quella giornata, passata tra riso, vino, parmigiano e tanta allegria e compagnia).
Si aggiunge di volta in volta un mestolo di brodo, alternato con l'acqua dei funghi opportunamente scolata da impurità, si mettono i funghi (che faccio passare velocemente sotto acqua corrente e strizzati in modo da pulirli definitivamente), una bustina di zafferano e dopo circa venti minuti il nostro risotto è pronto.


Ultima operazione è l'aggiunta di un piccolo pezzo di burro in modo da mantecare il risotto.

Non rimane ora che impiattare e assaggiare...

Che dire, la cottura del riso è davvero ben definita, perfetta, merito anche dell'ottima materia prima utilizzata.
Arriviamo al punto focale del piatto, gli ovoli: dolciastri, gradevolissimi, eleganti nel loro gusto fine, risultano un poco fibrosi come carne. Quest'ultima osservazione mi ricollega al paragone con i porcini. Sicuramente essi hanno un profumo e gusto più deciso e persistente rispetto agli ovoli, e la consistenza carnosa è più morbida. Ma la Caesarea nel complesso è più "gentile" nel suo sapore, oserei dire quasi femminile, l'unico punto che non mi convince appieno è la granulosità della carne. E' un piccolo neo che non scalfisce assolutamente il prestigio e bontà di questo fungo.

Alla regina del mondo fungino, non potevo far altro che abbinare il re dei vini: uno champagne Blanc de Blancs, per un abbinamento davvero ideale con il mio risotto.

La scelta, dopo un accurato controllo nella mia ormai infinita cantina personale, è caduta sulla seguente bottiglia:

Champagne Cuvée du Mélomane - Grand Cru
Blanc de Blancs Brut- 12 %
Herbert Beaufort - Bouzy
Lotto: L1007



Un Grand Cru proveniente da Bouzy, villaggio situato nel distretto della Vallée de la Marne, i cui vigneti possono fregiarsi di questa particolare appellazione che è la migliore per quanto riguarda lo champagne (le altre sono Premier Cru e Cru).

Ottenuto da uve esclusivamente a bacca bianca (da qui la denominazione Blanc de Blancs), e con un residuo zuccherino inferiore a 15 g/litro (quindi rientrante nella fascia Brut), viene imbottigliato da un produttore i cui vini li conosco da vari anni, avendo bevuto a più riprese alcune delle sue etichette come per esempio "Les Facettes" e l'ottimo "Carte d'Or".

Cuvée du Mélomane, nome davvero originale (in italiano potrebbe essere tradotto in "Cuvée dell'appassionato di musica"), è un assemblaggio di diverse annate di Chardonnay vinificato in purezza. Questo vitigno è rinomato per la sua freschezza, finezza ed eleganza, che lo pone tra i vitigni principali dello Champagne (gli altri sono Pinot Nero e Pinot Meunier).
La bottiglia è elegante, di vetro trasparente chiaro, che quindi mette in mostra il prezioso e colorato liquido presente al suo interno.

Fini bollicine davvero interminabili si presentano nel bicchiere una volta versato. Una grande consistenza e un colore quasi dorato m'ingolosiscono...
Sentori di agrumi, burro fuso, panettone, pasticceria secca, lievito, canditi e sbuffi di pesca che passano poi a note erbacee e minerali, rendono affascinante il bouquet aromatico di questo vino.
In bocca denota grande spina acida, che si pone filante e dritta nel palato (forse fin troppo aggressiva), con una discreta morbidezza, e buona sapidità. Si ripresentano le note agrumate, la struttura è buona, anche se manca un poco di rotondità. Una lunga persistenza e intensità esaltano il finale di questo champagne, rivelandosi nel complesso una più che buona bottiglia, che consiglierei soprattutto agli amanti del genere "acidulo", magari a discapito di una grassezza di materia leggermente deficitaria.

Ma l'abbinamento con il risotto agli ovoli è stato comunque centrato: franchezza, aromaticità e tendenza dolce dei funghi, con la cremosità del risotto, sono state contrapposte alla freschezza, sapidità e intensità gusto - olfattiva del vino, creando un connubio davvero intrigante.


Ancora una volta la cucina e cantina di casa Carnelli - Gatti hanno centrato l'obiettivo: chapeau...

E per finire, non può mancare l'appuntamento dolciario: torta di mele "Tonina".
Si tratta di una ricetta classica eseguita a casa mia da almeno tre generazioni.

Ingredienti
  •  mezzo chilo di mele
  • 2 etti di farina
  • 1,5 etti di zucchero
  • 0,5 etti di burro 
  • 1 bicchiere di latte
  • 2 uova
  • 1 bustina di zucchero
  • scorza di 1 limone
  • sale 
Si scioglie il burro in una piccola pentola, lo si mette in una marmitta e lo si amalgama per bene con le uova e lo zucchero. Si aggiunge poi la farina, il latte e il lievito.
A questo punto si affettano sottilmente le mele: io uso quelle prodotte da uno dei miei meli posti nel frutteto, nello specifico la varietà "Tonina", antica mela che ultimamente sta riprendendo a diffondersi grazie ad alcuni ricercatori e vivaisti che l'hanno recuperata nello scorso secolo e reimmessa nel circuito di vendita delle piante da frutto. Il frutto in questione è molto croccante e succoso, e si presta bene al suo utilizzo in preparazioni dolciarie di questo tipo.

S'incorporano le mele nell'impasto, e il tutto viene messo in una tortiera precedendemente imburrata e infarinata. La poniamo quindi in forno a 180°, e lasciamo cuocere per circa 40 minuti.

Il risultato finale è il seguente, e vi assicuro che è davvero buonissima !


domenica 1 febbraio 2015

Ricorrenze religiose e tradizioni: 3 febbraio, San Biagio


“A San Biàs, dùu ur in pàs”…

Esordisce con questo proverbio mia madre, chiedendole di raccontarmi come si festeggiava il giorno di San Biagio quando lei era piccola…

Il significato di questo proverbio è molto semplice: tra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio, le giornate iniziano ad allungarsi, e il contadino di allora riteneva di poter utilizzare le ore aggiuntive di luce dedicandole al riposo.

Ma torniamo al breve colloquio avuto con mia madre.

D. Che cosa ricordi di questa festa?

R. “A s’andava in gesa ai ses ur (ndr – una volta la messa prima era alle sei), e ai cinq e meza sunavan già i campann par ciamà a racolta i gent. San Biàs al ta prutegi dal màa da güura”.

“Sa purtava in gesa ul pan di puj, ul mangià di besti e ul sàal, i vecc purtavan ul pan giald o una crosta da pan avanzàa a Natal, e i fioeu purtavan la brusela fàa cun’t l’uga o i scigoll. Gh’era minga cum’è dess l’usanza da purtàa ul panetòn, a savevum n’anca sa l’era. Po’ quij robb chì a ì’ eran dàa ai besti par fai maràa no, e quij altar a i’ mangiaum nou, e ta fasevan vegnì no ul maà da güura”.

“Quasi tutt a li purtavan in da la spurtina, ca l’era fa da pell maroon a triangul intreciàa. Sa faseva benedì ul tutt, ma ul bell l’era quand t’andavat dal prèed a fas benedì la güura. Al ta meteva do candir incrusiàa tra lur e ligàa cun’t un nastar russ in sota al barbell, e al ta dava la benedizion, e gh’era anca quij ca basavan i candir. I candir ‘i eran stàa benedì ul dì prima, ul dì du la Candelora, in dialett ciamada anca Cerioeùla o Scirieula, al dipend da la zona”.

Riassumendo in italiano: si andava alla messa delle sei del mattino, dopo che alle cinque e mezzo le campane già chiamavano a raccolta i fedeli. Si portava il pane per i polli, il mangiare delle bestie della stalla e il sale (sempre da dare a quest’ultime), gli anziani il pane giallo e un pezzo di pane avanzato del giorno di Natale, i bambini la famosa “brusela” (la “burzela” per i gerenzanesi, ricordo per chi non lo sapesse che mia madre è di Turate, ma ovviamente da quando si è sposata risiede da tempo immemore a Gerenzano), fatta con uva o con le cipolle. A quei tempi il panettone non si conosceva ancora, per loro era un dolce assolutamente sconosciuto (anche se in realtà a Saronno esisteva l’equivalente del panettone, il famoso “Marmott”, cui mi sono ripromesso di dedicargli un apposito articolo più avanti). Questi “mangiari” benedetti, una volta inghiottiti, servivano a proteggere dai malanni invernali, come per esempio mal di gola e raffreddore nel caso degli uomini.

Il tutto era inserito nella sportina, la borsa che tutti avevano a quell’epoca. Fatta di pelle marrone, era fatta da strisce triangolari intrecciate fra loro. Il tutto era fatto benedire, ma lo scopo era anche quello di farsi benedire personalmente la gola. Si andava dal prete, il quale teneva due candele accese e incrociate fra loro, e che erano tenute assieme da un nastro rosso. Si appoggiava il mento tra le due candele, e si veniva benedetti (oppure c’erano anche quelli che le baciavano). Le due candele propiziatorie erano state benedette il giorno precedente, quello della Candelora, altra festività religiosa molto sentita.

Mia madre mi regala poi un’ultima battuta relativa ai giorni nostri sui festeggiamenti di San Biagio a Gerenzano: “Ul Don Filippo, ul dì da San Bià, al dis sempar ca la mai vedùu tanti donn in gesa cum’è qual dì lì ! A sa fann vidè a San Biàs cun’t la spurtina piena da panetòn e bumbòon da benedì, ma par tutt ul rest du l’ann, sa fan vidè mai !”

Vediamo di capire il motivo per il quale si venera in maniera così devota San Biagio, usanza tramandata da ormai tanti secoli

Biagio, vescovo e medico armeno vissuto nel IV secolo, scampò alle persecuzioni contro i cristiani rifugiandosi in una grotta. Qui, ai malati che si recavano in preghiera da lui, impartiva la benedizione, facendoli guarire.

In seguito catturato e imprigionato nelle carceri, continuò la sua opera di carità nei confronti di ammalati e infermi, finché a causa di due particolari eventi, la sua fama crebbe a dismisura.

Quali sono questi eventi? Vediamoli nel dettaglio.

  • Un ragazzo era in punto di morte a causa di una lisca di pesce conficcata in gola. La madre si rivolge a San Biagio, chiedendole di intervenire per salvare il figlio. Il Santo riesce a togliere la lisca, facendo guarire il ragazzo.
  • Riuscì a far riavere a una donna un maialino a lei sottratto da un lupo. La donna, in segno di riconoscenza, portò al Santo cibo e candele. Biagio le disse: “Ogni anno offri una candela alla chiesa che sarà edificata a mio nome, e nulla ti potrà mancare”.
Tra i simboli che ricordano il Santo, c’è il pettine da cardatore di ferro (che è lo strumento con cui fu torturato prima di essere ucciso, e che lo ha fatto diventare il protettore dei cardatori di lana), ma principalmente nelle sue immagini è spesso raffigurato con i due ceri incrociati, che ricordano il miracolo della lisca di pesce. Da qui ci si ricollega quindi all’attuale usanza di invocare il Santo come protettore della gola e del naso, ma esso veniva anche ricordato nel mondo contadino come propiziatore di buon raccolto. Ovverosia l’agricoltore portava in chiesa un pugno di semi da benedire, che successivamente seminati, si sperava garantissero una buona germinazione e raccolta.

Un’ulteriore curiosità su San Biagio: è stato il primo Santo indicato come protettore dell’amore e degli innamorati. Da anni ormai è stato scalzato da San Valentino, ma in alcune località lombarde viene ancora festeggiato anche per questo motivo (esiste ancora questo proverbio e usanza: “El prim c’al sa incontra, al sa basa”).

Altri due proverbi famosi nelle nostre località riguardanti San Biagio, sono i seguenti:

  •  A San Biàs sa benediss la güura e ul nàs
La facile traduzione ci ricollega all’usanza di metter via una parte del pane di Natale per poi farla benedire nel giorno di San Biagio e mangiarlo, preservandoci dalle malattie delle vie respiratorie. Ma in tempi più recenti, ci porta a capire anche da dove arriva l’attuale gesto di portare in chiesa il panettone. Esso ha in pratica sostituito il pane giallo, e se vi ricordate, fino a una ventina (se non di più) di anni fa, Alemagna e Motta in questo periodo “svendevano” i panettoni: due al prezzo di uno ed erano soprannominati “i panetòn da San Biàs”.

  • A San Biàs géra la gòta sota al nàs    
Ricordiamoci che il 3 febbraio, giorno in cui si festeggia il Santo, siamo appena usciti dai famosi “trìi dì da la merla”, considerati i giorni più freddi dell’anno. L’indicazione nel proverbio del fatto che si ghiaccia la “goccia” sotto il naso, vuole proprio richiamare questa situazione metereologica.

L’antica tradizione dei festeggiamenti per questo Santo fa parte del famoso trittico Candelora – San Biagio – Sant’Agata. Quest’ultima, considerata la “fèsta di donn”, faceva idealmente iniziare la “discesa” del calendario verso la primavera, quindi al ritorno verso la ripresa dei lavori agricoli di una volta. L’uscita dall’inverno era imminente, il mondo contadino dei miei amati “paisan” riprendeva vita.


Ma di Sant’Agata avrò il piacere di raccontarvi un’altra volta…