mercoledì 17 febbraio 2016

Tradizione e trasgressione: cazoeura e Champagne Cuvée Jacquesson 734...




Inverno strano questo, molto caldo, piogge e neve assenti, tranne che per l’acqua di questi giorni, e addirittura le gelate non sono proprio pervenute. E sono proprio quest’ultime che dettano in cucina il periodo per cucinare il piatto principe della tradizione lombarda: la cazoeura !

Infatti, questo succulento piatto lo si faceva principalmente dopo la prima gelata invernale (solitamente agli inizi di novembre), quando le verze rimanevano “imbrigliate” dal primo ghiaccio di stagione.

Come detto in precedenza, questo inverno è stato finora molto strano, ma ciò non ha tolto la mia voglia di cazoeura: è ora di mettermi ai fornelli per eseguire questa bontà culinaria !

Questa che vado a illustrarvi è la ricetta da sempre eseguita in casa Carnelli, tramandata ormai da generazioni. Poi si può discutere sulla quantità d’ingredienti, metodi e tempi di cottura, e altre cose squisitamente dipendenti dai gusti personali, ma per me così deve essere fatta ! L’unica variante che a casa mia era ammessa (anche se io ero piccolo per ricordarla), era l’aggiunta “dul pescioeu dul purcell”, rigorosamente tagliato a metà per ottenere una miglior cottura o l’utilizzo delle orecchie del maiale, se non addirittura di tutto “ul còo dul purcell”.

Le quantità indicate sono per circa sei persone.

Quattro verze prelevate direttamente dall’orto di casa, ben mondate e divise foglia per foglia. Per i più puri si può togliere “ul ciston” centrale della foglia, in quanto risulta leggermente più duro rispetto al resto della foglia dopo la cottura. Le foglie si lasciano per un giorno intero in un recipiente con acqua, in modo da ammorbidirle.

In un “padelott” bello capiente (io uso ancora quello di mia nonna Bruna), faccio un soffritto con mezza cipolla, burro e olio. Aggiungo poi cotenne (mezzo chilo o anche di più), un chilo e mezzo di costine (o eventualmente puntine), e sei “verzitt” (i “cudeghitt verd” immancabili in questo piatto).

Mi raccomando, un passaggio fondamentale è la pulizia delle cotenne, che vanno ben pelate per togliere gli immangiabili peli “dul purcell” !

Rosolo bene il tutto versando anche un bicchiere di vino bianco, con l’aggiunta di un gambo di sedano e due carote tutti ben sminuzzati. La cottura procede con un bicchiere di brodo, sale e pepe.

Dopo circa un’ora (ma consiglio sempre di verificare di persona), la carne è ben cotta, e le cotenne si sono ammorbidite. E’ il momento di aggiungere le verze. Vanno rimestate più volte con i precedenti ingredienti, e quando la verza è cotta (attenzione che non si deve disfare, deve rimanere comunque integra), la cazoeura è pronta ! Mi raccomando, non deve rimanere troppo acquosa, ma piuttosto asciutta (anche se la scarpetta finale con il pane per pulire i resti del sughetto nel piatto non deve mai mancare). Un proverbio locale dice che “la cazoeura par vess bona la dev vess sucia” ! 

La cazoeura in dal padelott du la nona Bruna
E gustarla è davvero la fine del mondo: s’inizia con il profumo intenso, penetrante, che aguzza l’appetito e aumenta la voglia di mangiarla ! La carne delle costine che si stacca dall’osso e si scioglie in bocca abbinata alla dolcezza e grassezza delle cotenne riempie il palato, i robusti verzitt regalano punte di godimento assoluto, e le verze nostrane, con il loro sapore ben accentuato e la loro morbidezza, legano tra loro tutti gli ingredienti di questo piatto generoso piatto, e che alla fine, per i più deboli, mette a dura prova la digestione ! 


Ma quale vino abbinare a questo piatto ? A ragion veduta deve essere sicuramente un vino rosso mosso lombardo, in modo da sposare l’abbinamento regionale, ma al di fuori di questo deve essere principalmente un vino che sgrassa e pulisce il palato dall’untuosità e grassezza del piatto. Per me esiste un solo vino “da cazoeura”: l’incommensurabile Barbacarlo del “sciur” Lino Maga ! Un vino ottenuto da Uva Rara, Vespolina e Croatina (a volte con l’aggiunta di una piccola percentuale di Barbera), mai uguale da annata ad annata, a volte fermo, a volte frizzante, un anno secco, quello dopo abboccato…un vino che regala emozioni diverse a ogni bottiglia assaggiata, e che tutti dovrebbero assaggiare almeno una volta nella vita !

Ma non è questo il momento di parlare del Barbacarlo, perché quest’ultima cazoeura, particolarmente ben riuscita, merita un abbinamento più trasgressivo in tutti i sensi. E così, dalla mia cantina, salta fuori un buon “champagnino”…

Champagne Cuvée N°734 Brut
Uvaggio 54% Chardonnay – 26% Pinot Meunier – 20% Pinot Nero
Sboccatura 1° trimestre 2010
Dosage 3,5 g/l
Titolo alcolometrico 12%
Lotto L734.12
Produttore Jacquesson 


Il retro etichetta della bottiglia ci regala ulteriori informazioni su questo vino: ottenuto per il 73% con uve dell’annata 2006, e con vins de réserve provenienti da Grands e Premiers Crus della Vallée de la Marne e de Côte de Blancs.


Bando alle ciance, si degusta senza perdere tempo ! Cristallino con un perlage persistente, numeroso e abbastanza fine, dal coloro deciso, un giallo dorato molto carico. 



Lievito, panettone, canditi, burro fuso, nuance d’agrumi davvero lodevole, pasticceria secca, marzapane, vaniglia, nocciola, pera, con l’aggiunta di note gessose e minerali esplodono all’olfatto.

In bocca ritroviamo le principali caratteristiche date dai tre vitigni impiegati per questa cuvée: lo Chardonnay regala finezza ed eleganza, mentre il Pinot Nero da struttura, pienezza e rotondità alla materia. La mineralità che ritroviamo anche in bocca è invece la classica caratteristica del Pinot Meunier. Al di fuori di queste elementari disquisizioni, stupisce per la grande freschezza e morbidezza presenti, che integrano ed equilibrano il tutto (forse l’ago della bilancia rimane leggermente spostato verso le durezze), con una leggera nota ammandorlata finale e una lunghissima persistenza che rende il vino dinamico, vivo, di spessore.

E tra la mia cazoeura e questo Champagne è stato amore a prima vista: mi perdonerà “ul sciur” Lino Maga per non aver abbinato il suo fantastico Barbacarlo a questo piatto, ma stavolta bisognava osare, e non me ne sono pentito…quel che ne è uscito è stato un abbinamento di alto livello fra un piatto “povero” e un vino “ricco”. Da provare e riprovare all’infinito !

domenica 24 gennaio 2016

Osso San Grato: quando il Nebbiolo è immenso anche fuori dalle Langhe…



Osso San Grato: quando il Nebbiolo è immenso anche fuori dalle Langhe…

Ho un amore viscerale per questa bottiglia, tanto è vero che nella mia cantina sono presente svariate annate da far invidia a qualsiasi collezionista. E’ un amore che parte da lontano, dalla semplicità e rigorosità dell’etichetta, dai profumi eleganti che sprigiona questo vino, fino ad arrivare a una ferrosità ed ematicità davvero singolari, una struttura rotonda e opulenta, a graffi di grafite e “scarica elettrica” che tagliano il tuo palato, rendendo struggente la beva, fino ad arrivare alla particolare zona di produzione (Gattinara), posta ai piedi dell’inizio della strada che porta nella mia amata Valsesia.

Infatti, il Nebbiolo non è solo Langhe, ma si lega anche ad altre località produttive da cui si ottengono grandi risultati: Canavese, Novarese, fino ad arrivare a una delle mie altre valli alpine preferite, la Valtellina. Qui, oltre naturalmente allo Sforzato, il Nebbiolo (chiamato Chiavennasca) raggiunge uno degli apici della sua fama attraverso le sottozone della Valtellina Superiore DOCG, che sono Inferno, Valgella, Maroggia, Grumello e Sassella (quest’ultima sicuramente una spanna superiore alle altre).

Ma torniamo alla nostra bottiglia, l’Osso San Grato: come dicevo, viene prodotto a Gattinara, cittadina del vercellese vocata alla vitivinicoltura, dove sono presenti ottimi produttori tra cui Iarietti, Travaglini, Anzivino, Nervi e Antoniolo. Quest’ultima cantina, fondata negli anni ’40 da Mario Antoniolo e rimasta di proprietà della stessa famiglia fino ai nostri giorni, rimane sicuramente, a mio personalissimo parere, l’elemento di spicco trainante della produzione enologica della zona. Oltre all’Osso San Grato, produce altri cru della DOCG Gattinara, oltre al sempre piacevole DOC Coste della Sesia.

L’annata che ho degustato ha sulle spalle una decina d’anni, è la 2006, con titolo alcolometrico pari a 14%. Sul retro etichetta si trovano riportate alcune informazioni interessanti relative all’annata: 62 quintali di uva raccolti, pari a 80 brente di vino (la brenta è una specie di gerla usata per il trasporto del vino, che equivaleva anche a un determinato valore di unità di misura). Da questi 62 quintali di vino si sono ottenute 5324 bottiglie, e la mia è la numero 375.

Rigorosamente versato in un ampio balloon, dopo aver aperto circa un’ora prima la bottiglia in modo da ossigenare il vino, arrivo a gustarmi il mio “Osso”…

Grandissima consistenza nel bicchiere e un colore aranciato davvero intrigante anticipano e accendono la fantasia delle note olfattive. Fantasia che subito si trasforma in realtà elegantissima: prugna secca, mora, rosa canina, tabacco, humus, cuoio, china, note balsamiche e terra bagnata si susseguono l’un l’altro fino a sfociare nelle caratteristiche di questo vino: una ferrosità che richiama note quasi di ruggine e un’ematicità particolare, densa, pregna…

E’ ora di berlo…tannini ancora leggermente da sgrezzare si sposano con un’ottima morbidezza alcolica, il tutto levigato da una grandezza di materia davvero impressionante. Mandorla, grafite, ancora note di ferro e leggere “scariche elettriche” (come quando da piccoli si accostava la lingua alla lama del temperino per prendere la scossa) arricchiscono inequivocabilmente la ricchezza della bottiglia. Una grande armonia e persistenza chiudono a palato e olfatto questo capolavoro di Nebbiolo in purezza.

E come ultima chicca, l’Osso è degno accompagnatore di un ricco piatto di “casonsei” bergamaschi, fatti a mano e comprati freschissimi: ecco come fare un piacevole sabato sera con famiglia e amici…


Osso San Grato 2006


Il retro etichetta...
Casonsei alla bergamasca...

mercoledì 6 gennaio 2016

I “càmer” dei cortili gerenzanesi…

Ancora oggi molte corti di Gerenzano sono pressoché intatte nella loro struttura architettonica, un breve giro fra esse ci fa rendere conto di come a volte il tempo pare quasi si sia fermato: l’abitazione principale, suddivisa tra pian terreno e piano superiore, ha subito solo ammodernamenti di facciata. Le stalle in molti casi sono ancora presenti e quasi intatte, anche se non più utilizzate, sopra di queste si trova il fienile, dove lunghe e vecchie scale di legno ci ricordano le fatiche fatte dai paisan nel portarvi il fieno. Sono però scomparsi i pozzi che servivano alla raccolta dell’acqua piovana, così come i locali adibiti alla coltivazione dei cavaler, trasformati e annessi all'unità abitativa.
Sopravvive nella corte, posto sotto gli ampi porticati o in prossimità delle stalle, seppur in disuso, “ul càmer”: ma cos’è il “càmer” ? Semplice, la latrina di quei tempi !

All’epoca i servizi igienici non erano all’interno delle abitazioni, ma all’esterno, nelle immediate vicinanze.

Il locale (ma chiamarlo così vi assicuro che è un'esagerazione, viste le ridotte dimensioni), era di circa 1 metro per 1 metro (o a spanne qualcosa in più), con pareti in muratura, un tetto di lamiera o cemento, e una porta di legno con maniglia arcuata in ferro o in legno. La porta in alcuni casi non copriva l’intera altezza del manufatto, ma era più corta, in modo che sia a terra sia ad altezza uomo il “càmer” fosse aperto, cosicché da lasciar aerare il locale. Le condizioni igieniche di questi bagni erano chiaramente precarie, nonostante le massaie d’allora si prodigassero comunque nella pulizia “quasi” quotidiana delle latrine.

Chiaramente non solo nelle grandi corti c’era il "càmer", ma anche nei cortili delle abitazioni private (io stesso ricordo che in via Rovello fino agli inizi degli anni ottanta ve n’era ancora in funzione uno in un cortile a me vicino).

Per saperne di più sui “càmer”, ho quindi chiesto lumi a chi ha vissuto l’epoca finale di utilizzo di questi gabinetti, ovverosia mia madre, che ai tempi era una bambina. Nonostante l’argomento “singolare”, si è prestata tra una risata e l’altra nel raccontarmi i suoi ricordi. Ecco il suo racconto.

Era una specie di casetta, dove per terra c’era un buco circolare con un pavimento fatto di “quadrii” (ndr - mattoni), oppure “sass e tèra”.

Ti chiudevi dentro tirando una porticina di legno. All’interno c’erano due “quadrii” mobili, dove appoggiavi i piedi, in modo da avere un minimo d’igiene e non calpestare la base del gabinetto che magari era sporca. D'inverno era un supplizio anche il solo arrivarci, perchè faceva freddo, c'era neve e pioggia, e chiaramente anche all'interno il freddo era pungente.


A quei tempi non esisteva la carta igienica, noi eravamo fortunati perché “ul regiù” (ndr – suo padre) comprava sempre il giornale, e ci si puliva con la carta di quello. Ma bisognava essere parsimoniosi nell’usarla, perché in famiglia eravamo in tanti e doveva bastare per tutti.

Di fianco al gabinetto c’era la copertura del pozzo nero (ndr - chiaramente i “bisogni” confluivano in esso). Il pozzo nero aveva un’apertura dove, tramite un secchio, “ul cavàlan, ca l’era ul Carloeu Babèe”, prelevava “ul rungiò” da spargere poi nei nostri campi. “Ul cavàlan” era l’uomo che aveva la “careta du la bonza”, una carretta con sopra una botte di ferro, la quale aveva un foro superiore dove era immesso “ul rungiò” (foro che poi era chiuso con asse o tappo di legno). Era chiamato “cavàlan” perché aveva il cavallo (adibito al traino della carretta e al lavoro nei campi), ed era l’uomo al quale “ul regiù” faceva lavorare i nostri terreni. Veniva pagato in soldi, ma gli accordi erano che comunque il nostro “rungiò” fosse sparso come concime solo nei nostri campi. Per noi bambini era una festa l’arrivo del “cavàlan”. “Al rivàa ul cavàlan, al rivàa ul cavàlan”, si urlava, e tutti correvamo intorno a lui per vederlo all’opera, a quei tempi era un divertimento anche assistere a queste cose !


In famiglia abbiamo avuto sempre i gatti. Però quando la gatta dava alla luce tanti gattini, era un problema ! Erano comunque tutte altre bocche da sfamare in una maniera o nell’altra. Allora “ul regiù” prendeva i “miniti” (ndr – gattini) e li buttava nel buco del gabinetto. E quando subito dopo andavi in bagno, sentivi ancora i miagolii provenire dal buco. I “miniti” già più grandi e forti avevano la forza di risalire, allora chiamavi “ul regiù”: “Oh pà, ghè vegnù foeura ul minèe dal bùs”. E allora lui lo ricacciava dentro a forza. Quando poi i gattini erano ormai morti da giorni o minimo qualche settimana, dal buco uscivano i “biscueen”, vermi bianchi con la coda dovuti alla decomposizione dei cadaveri (la parola dialettale "biscueen" sta a significare proprio bisce con la coda). Io scappavo sempre quando li vedevo…e se già di per sé il gabinetto “al spuzava”, quando i corpi dei gattini erano in putrefazione “al spuzava ancamò da pù” !

“Oh fioeu”, voi non sapete quante cose abbiamo vissuto noi da piccoli che al giorno d’oggi raccontarle “a sembran ball” ! “Ta na disi ‘n’altra, anca se la centra minga cunt ul cess”: la piccola nevicata di questi giorni mi ha fatto venire in mente “s’al faseva cusèe ul to zio Carlo” (ndr – uno dei suoi fratelli). A quei tempi non si aveva niente da mangiare, in inverno ancora peggio, e noi bambini e ragazzini sognavamo invece di far andare sempre la bocca. Allora tuo zio prendeva la “fùunera” (classica trappola per i topi), caricava la molla con un bastoncino, vi spargeva sopra delle granaglie, e la metteva in mezzo alla neve. In questa maniera catturava i passerotti che si appoggiavano sulla "fùunera" per cibarsi dei chicchi e facevano scattare la molla. Per noi erano una prelibatezza ! Lui era anche cacciatore, tornava spesso dalle sue battute di caccia "in di bosch du la Moronera" con qualche “legura o cunili”. “Al tacava ul cunili legàa a un basell du la scala da legn, cunt i màan da sbies al ghà tirava tant legnàd, e al ghà rumpeva ul coll par fall murìi”. Con il coltello lo apriva scuoiandolo, e come per magia l’intero corpo del coniglio cadeva a terra ai suoi piedi…e poi era una grande festa quando lo si cucinava…!

Al di fuori di queste ultime divagazioni fatte da mia madre riguardanti la vita dell’epoca, ha comunque descritto un quadro ben fatto di com’erano concepiti e utilizzati i "càmer".

Mi preme segnalare altre due cose sulle latrine di una volta:

1 - In dialetto gerenzanese, gabinetto si dice “càmer” se sei “dul Burghett”, mentre gli abitanti “dul Giò da val” dicono "càmar" – (ringrazio per la segnalazione gli amici Emma Castelli e Peppo Oliva, inesauribili fonti di sapere, storia e vita gerenzanese) !

2 - Sui muri dei gabinetti gerenzanesi, vi erano riportate curiose e singolari frasi (tratte dal libro “Rimembranze gerenzanesi – parte seconda” di Mario Carnelli):

- Qui si entra pesanti e dolorenti e si esce felici e contenti

- Cagate molle, cagate duro ma non fate le virgole sul muro

- Qui si entra e non si paga, ci si sbottona e si caga, poi si esce allegramente di non aver pagato niente

Insomma, anche i “càmer” fanno parte di quegli usi e costumi d’altri tempi che i nostri paisan di una volta hanno vissuto in un’epoca che pare davvero lontana. Ma come detto in apertura, basta girare le corti di Gerenzano ed ecco che i “camer” riappaiono come fantasmi dal passato, facendoci capire che quell’epoca non è poi così lontana, anzi la loro presenza, assieme alle stalle, ai fienili, alle aie, ai vecchi attrezzi e carretti sparsi per i nostri cortili rinforza ancora di più il filo che ci lega e annoda alle nostre radici e tradizioni, a volte troppo spesso bistrattate e dimenticate.

Di seguito alcune foto di "càmer" dei cortili gerenzanesi.

In da la Curt di Cà Brusà

Càmer, stalle e fienili

Càmer

L'interno del càmer di sopra, già in "versione moderna"

Càmer versione ripostiglio...

Càmer in disuso...

Càmer in versione legnaia...

Lo stabile da altra angolazione

Stalla con scala per accedere al fienile

Il porticato d'ingresso della Curt di Cà Brusà

Vecchie scale che portano ai piani superiori

Sempre le stesse scale con una piccola finestrella da cui filtra luce

Carretto


Altro carretto


Corte in vicolo San Paolo

Stalle, fienili e càmer in vicolo San Paolo

Vecchie mura in da la Curt di Piciana


In da la Curt di Fenegrò

Scale che portano alle abitazioni...

Stalle, fienili e càmer in da la Curt di Fenegrò

Càmer

Càmer che ormai fa da ripostiglio

Altro càmer...

Vecchia casa tipo "colonica" parzialmente ristrutturata e ora disabitata in via Carso


In da la Curt di Marchion

Càmer in da la Curt di Marchion, sulla porta vi è presente un galletto in legno
In da la Curt di Matarit

Stalle, fienili e càmer in da la Curt di Matarit

Càmer in da la Curt di Matarit, si può notare la pietra circolare posta davanti all'uscio che copre il pozzo nero

Altra càmer nella stessa corte
In da la Curt Granda

Càmer ristrutturato in da la Curt Granda
In da la Curt di Bas da Bal

Càmer in da la Curt di Bas da Bal
In da la Curt di Nela

Càmer da la Curt di Nela