venerdì 7 aprile 2023

La Rosa Boschirora, vecchie strade e stradine di Gerenzano e la conduzione dei boschi secondo il marchese Federico Fagnani...

Il racconto del particolare lavoro di una donna che abitava nel rione BURGHETT a cavallo della metà dello scorso secolo, si intreccia con le vecchie strade di Gerenzano, finendo a parlare poi di come dovevano essere condotti e mantenuti i boschi secondo il marchese Federico Fagnani...

La Rosa Boschirora

Dai ricordi personali di Carolina Pigozzi, abitante in via Brera agli inizi degli anni '50.

La Rosa era una donna piccolina, quasi minuscola, ma dotata di un'energia e forza non comuni.

Abitava in via Brera, ed era soprannominata in dialetto la "boschirora", la boscaiola. Infatti, si può dire che il suo lavoro principale era il taglio e la pulizia dei boschi. Profonda conoscitrice del territorio gerenzanese e delle varie tipologie di piante in esso presenti, era riuscita a tessere un giro di profonde conoscenze con tutti i proprietari dei boschi tra Gerenzano, Massina e Rescalda. Essi affidavano a lei il taglio delle piante vecchie o malate / morte, e l'eliminazione dei giovani polloni che "sbucavano" dal terreno. Carpini, faggi, pioppi, querce, robinie, pini, castagni e betulle venivano inquadrati dagli occhi arguti della Rosa, la quale sentenziava: "quest chi l'è giuìn, lasemalal stà, quest chì al va ben, ga démm 'na tajada, quest chì l'è mort, via, al tajum", etc.

Le battute di "caccia alla legna" della Rosa Boschirora si svolgevano principalmente durante a partire dai mesi primaverili inoltrati, dove era più facile determinare eventuali piante morte, le quali non presentavano nuovi getti di verde, e perché vi era già la presenza dei polloni da tagliare. Presumo che Rosa conoscesse anche le tempistiche di taglio delle piante in base a luna crescente o calante (generalmente, le piante vanno tagliate in luna calante, ma qui entriamo in un dibattito che sarebbe molto più ampio da affrontare, e soprattutto le credenze sull'influenza della luna, in questo caso sul mondo vegetale, ancora oggi generano accese dispute tra scienza stessa e cultura popolare contadina).

L'andare a fare la legna diveniva quindi una vera e propria processione che partiva da via Brera e andava verso i boschi a ovest di Gerenzano (che iniziavano in località detta "dul Mòr", del Moro - proseguendo nella lettura capirete l'ubicazione di questa località). Processione, perché assieme alla Rosa Boschirora, di buona mattina, si univano le donne della via con una nutrita presenza di bambini, tra cui anche Carolina Pigozzi, ai tempi una fanciulla. Armate di sigurìn (accette), fulcìtt (roncole) e reseguni (seghe) riposte sulle vecchie carriole di legno, attraversavano campi e strade sterrate di Gerenzano, cantando le nenie di quei tempi sotto gli sguardi curiosi dei "paisan", che iniziavano a fare "ul mageng", il primo taglio dell'anno del fieno, tra una fila e l'altra di filari di gelso, ancora esistenti in abbondante numero a quei tempi nelle nostre campagne.

Paisan mentre taglia il fieno con la "ranza"...

Il lavoro era faticoso, la Rosa Boschirora dava tutte le indicazioni del caso alle donne sui lavori da svolgere, aiutandosi le une con le altre, mentre i bambini giocavano tra loro. Anche ai bambini però veniva affidato un compito: quello di raccogliere polloni e rami piccoli tagliati, raggrupparli e legandoli in modo da creare "fassìn" e "fassìnett" (fascine e fascinette). 

A mezzogiorno si pranzava tutti assieme all'ombra. Ma cosa mangiavano? La risposta di Carolina è stata molto semplice: le donne portavano da casa la classica "ramina" (che potete vedere nella seguente immagine), nella quale si trovava un bel minestrone! Questo era il praticamente il loro pranzo.

Palio di Turate 1980. Rievocazione storica di un gruppo di operaie del "Cuton" con in mano la "ramina" - foto tratta dal libro "Rimembranze gerenzanesi" volume I

E dopo avervi mostrato la "ramina", lodiamo con una poesia dialettale il suo contenuto, il minestrone! Poesia tratta dal libro "Rimembranze gerenzanesi" volume II - autore della poesia sconosciuto.

“UL MINESTRON”

Che nom propi da cà,
Pien da prüfum d’un temp,
parli dul temp di noni
da forsi cent ann fa.
Alûra i eran famili!
Un ròsc da fioeu,
e marì e mièe,
e biàdigh e neùd,
e pö gh’era i regiùu,
düü tipi sempar in pista.
Sa ga dava dal vü,
par ul gran rispett.
 
E ben ul minestron
l’era la previdenza
par tüta la cumbrìcula,
la vera sulüzion
dal pussèe gran prublema.
In fund l’era be lü,
a tignì in pèe la cà,
baràca e büratìn,
senza tanti da pü.
 
Un barbuton tremendu,
un rangugnon intrepid,
par ur e ur e ur
sül camìn bell pizz.
E i fasoeu a saltà,
e ul coverc a sbatt,
a bufà cumè a dì:
- Sa vurii, l’è inscì
i verdür, si sa mett
sa sa, i è pegg di donn,
un cungress da quii giüst.
 
Finalment a taula.
Da scià, da là i regiùu,
inturnu tütt al sêguit,
in mezz ul pignaton
cun dentar ul minestron.
Che prüfum sa spànd,
al slarga ul coeur,
ul fiàa!
Un bel segn da crûs
e avanti…
 
Silenzi!
L’è un ritu patriarcàl
E ringrazièm ul ciel,
e ringràzièm la téra,
che da al cent par cent,
cumè ‘na vera màma.
 
E dumàn e dopudumàn
e tütt i dì du l’ànn,
da càp cul minestron,
ul piatt tradiziunal,
ul piatt di patriarca,
sempar bon, sempar quel,
cumè la previdenza.

Ma non c'era molto tempo per pranzare, ci si rimetteva subito tutte al lavoro, e verso le 17, riempite le carriole (che sicuramente non erano leggere), rientravano verso casa stanche ma a loro modo felici (soprattutto i bambini), per aver comunque passato una giornata tutti assieme.

L'approvvigionamento delle legna a quei tempi era molto importante, perché serviva per il focolare domestico e per alimentare le vecchie stufe da cucina a legna (più raramente si usava il carbone, il quale aveva costi maggiori e lo si comprava dai "carbunitt"). Per risparmiare comunque sia sulla legna che sul carbone, a volte li sostituivano con palle di carta che venivano immerse nell'acqua e poi messe ad asciugare al sole nei mesi estivi, oppure bruciavano i ricci delle castagne. Entrambi erano ottimi combustibili alternativi ai primi due indicati.

Carolina mi ha anche raccontato con molta precisione le strade che percorrevano da via Brera per arrivare ai boschi gerenzanesi. Allora ho provato, per curiosità e per "gioco", aiutandomi con una mappa risalente a circa quell'epoca (1949), a rintracciare queste strade e stradine. Strade che al giorno d'oggi in parte sono cambiate a livello di toponomastica, in parte sono state ampliate, e chiaramente ora sono quasi tutte asfaltate (la maggior parte delle strade a quell'epoca erano ancora tutte in terra battuta). Perdonatemi se le immagini non saranno chiarissime, ma ho dovuto fare un po' di collage "manuale" con le varie tavole topografiche.

Inoltre Carolina mi ha detto che a volte facevano due percorsi diversi. Nell'immagine d'insieme seguente, ve li ho rappresentati in giallo ed in arancio. Noterete che comunque buona parte dei due percorsi è in comune.



PRIMO PERCORSO (GIALLO)

Quindi, come detto partivano da via Brera. La via Brera, a quei tempi, era una strada che laterale di via XX settembre, faceva una curva a destra a gomito di 90°, e "sbucava" sulla Varesina. Il tratto che andava dalla curva a gomito alla Varesina, è l'attuale inizio di via Torino. Via Brera quindi non proseguiva come lo è attualmente fino all'incrocio con via Galilei. Questa parte della via non esisteva, erano solo campi, i quali degradavano verso un'altimetria più bassa rispetto alla zona di partenza di via Brera - lato via XX settembre. Percorrendo quindi qualche decina di metri nei campi (probabilmente vi era comunque una piccola stradina di campagna), la nostra comitiva di "boscaiole" incrociava la strada consorziale detta Vedova. Sarebbe curioso capire il motivo di questo strano nome per questa stradina. Ipotizzo che fosse chiamata così perché da un lato non aveva sbocchi e finiva nei campi, oppure perché magari attraversava proprietà di qualche donna locale rimasta "vedova" negli andati anni o addirittura secoli precedenti. Via Vedova è parte dell'attuale via Galilei e Pio XI.

Arrivavano quindi all'incrocio con via della Fagnana (attuale via Roma), e giravano a destra su di essa.

IMMAGINE 1

La posizione di via Brera e il senso di partenza della "processione"


IMMAGINE 2

Il proseguimento su via Brera, l'attraversamento dei campi, l'arrivo su via Vedova fino all'incrocio con via Fagnana


IMMAGINE 3

L'attuale conformazione delle vie odierne rispetto all'immagine 2



IMMAGINE 4

Facendo riferimento alle immagini 4 e 5 seguenti, continuavano a camminare su via alla Fagnana fino all'attuale incrocio con via Risorgimento (dove d'angolo c'è il supermercato Sigma), proseguivano dritto sempre su via Fagnana (che diventava l'attuale via Firenze), dove c'è ora la rotonda con via dei Casari giravano a sinistra in quest'ultima (che già a quei tempi aveva questo nome). Tratteggiata in verde, potete notare il pezzo di strada mancante dell'attuale via Risorgimento che arriva fino al cimitero (l'incrocio con via Risorgimento - angolo supermercato non esisteva ancora).


IMMAGINE 5

Nota per il lettore: tra le varie stradine indicate in immagine, segnalo anche via Pozzol (attuale via Santa Caterina da Siena). Curiosamente su due mappe antecedenti a questa (1855 e 1902), la stessa via è indicata come Pozzolo. Pozzol penso possa trattarsi di un probabile errore di trascrizione.



IMMAGINE 6

Nell'immagine 6 sotto potete notare il proseguimento del percorso su via dei Casari dall'incrocio con via Fagnana (via Firenze) - l'incrocio non appare visibile nell'immagine perche facente parte di un'altra tavola (fare comunque riferimento all'immagine 5). Si continuava poi in via detta Prado (attualmente diventata il proseguimento di via dei Casari).

Nota per il lettore: in mappa viene indicata via Prado. Curiosamente su due mappe antecedenti a questa (1855 e 1902), la stessa via è indicata come Prada. Prado possa trattarsi di un probabile errore di trascrizione.



IMMAGINE 7

Nell'immagine 7 l'arrivo all'incrocio tra via del Moro, via Massinetta (ora via Don Gnocchi), e via Prado (ora via dei Casari - questa zona di campi era denominata "Paradiso"). Proseguendo sulla sterrata del Moro, la strada si divideva in due: da una parte manteneva lo stesso nome, dall'altra diventava via delle Vigne. Curiosamente, anche l'attuale via Inglesina che parte dal "Grisela" ed arriva all'incrocio con via don Luigi Sturzo, era denominata ai tempi via delle Vigne. Entrambe le due strade, portavano alla zona boschiva a ovest di Gerenzano, conosciuta come località "dul Mòr", appunto del Moro. Moro ipotizzo faccia riferimento a eventuali poderi presenti in zona che erano in passato di proprietà di una persona chiamata il Moro (bisognerebbe avere sottomano l'esistente mappa, non in mio possesso, relativa ai possedimenti gerenzanesi di Luigi Canzi, molto più dettagliata rispetto a queste). Oppure faceva riferimento a un singolo e particolare gelso, in quanto in passato i gelsi erano chiamati anche mori (in dialetto mooròn), come indicato dal marchese Federico Fagnani in uno dei suo trattati sull'agricoltura.
I tracciati di via delle Vigne, via del Moro, via Prado e via dei Casari, erano comunque già indicati anche sulla mappa del Catasto Teresiano del 1722. Purtroppo, neanche la mappa del Catasto Teresiano però mi è stata d'aiuto per capire l'origine del nome Moro.



IMMAGINE 8

L'attuale conformazione delle medesime vie rispetto all'immagine 7. La cartografia di Google Maps indica ora via del Moro come parte dell'ex via delle Vigne. I proseguimenti di via del Moro e via delle Vigne sono delle semplici tracce (segnate da me con linee gialle).



SECONDO PERCORSO (ARANCIO)

Il secondo percorso condivideva con il percorso giallo le stesse strade partendo da via Brera fino all'incrocio di via Vedova con via Fagnana, evito quindi di ripetermi (fate comunque riferimento alle immagini 1 e 2).

IMMAGINE 9

All'incrocio tra la parte superiore tra via Vedova (via Pio XI) e via Fagnana (via Roma, si proseguiva diritto ancora su via Vedova, che sbucava in via Boarescia (via Quarto dei Mille e parte di via Risorgimento). Si imboccava poi via Fagnanella (la via interna che passa davanti al cimitero).

Mi piace immaginare che mentre passavano davanti al cimitero, qualche donna del gruppo abbia pronunciato uno dei detti gerenzanesi più famosi e simpatici: "Ul cimiter da Gerenzan l'è ul post in dua sa riposan sant, ladar, braui omm, disgraziàa, sguangie e tanti tanti cornùu!"


IMMAGINE 10

Superato il cimitero, si girava a sinistra in via Prado (o Prada), e si arrivava all'incrocio con via dei Casari, girando ancora a sinistra sul proseguimento di via Prado. La parte di via Prado che inizia da dietro il cimitero, attualmente in parte non esiste più, è stata eliminata con la costruzione del fabbricato con i nuovi loculi. Ne rimane solo una traccia tra i campi tra questi loculi e via dei Casari.



IMMAGINE 11

L'immagine 11 replica l'arrivo nella zona di via del Moro - via delle Vigne del percorso giallo, in quanto rimane il medesimo.


Avrete certamente notato che non viene percorsa, in entrambi i due casi, la via Boarescia (via Risorgimento), che in realtà era la più semplice e veloce per arrivare nelle zone boschive. Il motivo è semplice, spiegatomi direttamente da Carolina: a quei tempi la via Boarescia, che collegava Gerenzano a Rescalda, Rescaldina e proseguiva per Castellanza, era già percorsa da auto e camion (sia chiaro, con volumi di traffico molto ma molto minori rispetto all'attuale situazione). Ma la presenza di veicoli a motore, era per loro e per i bambini un motivo di pericolo. Ragion per cui, preferivano fare le stradine più interne nelle campagne.

Nota personale finale sul mantenimento dei boschi: al giorno d'oggi, tralasciando il fatto che la legna, dalle nostre parti, non viene più usata principalmente come combustibile per ottenere riscaldamento, parte del lavoro che svolgevano la Rosa e queste donne, non viene più fatto. Ovverosia la "pulizia" del bosco. Persone come la Rosa o come i vecchi proprietari di una volta dei boschi, eseguivano il taglio di piante malate o morte, ma anche di polloni, rovi e altri infestanti (il cosiddetto sottobosco), lasciando quindi "spazio" vitale solo a piante sane. Per contro, la rimozione del sottobosco, oggigiorno da molti è in realtà considerato un errore pratico ed ecologico (soprattutto in funzione di un corretto mantenimento del bosco e, paradossalmente, in funzione di prevenzione agli incendi).

Noi siamo abituati a "vedere" il bosco come una distesa orizzontale di piante. Ma analizziamolo in verticale. Troviamo una struttura complessa composta da tre "strati". A terra abbiamo lo strato di le foglie, dove i miei "amici" funghi saprofiti, oltre ad altri organismi, decompongono sostanze organiche "complesse" trasformandole in sostanze "semplici" che rientrano in circolo nell'ambiente. A metà altezza troviamo lo strato con i famosi "polloni", giovani piante che permettono il mantenimento delle ottimali condizioni di umidità e luce al suolo, dove lavorano i precedenti menzionati organismi "decompositori". In alto abbiamo invece le chiome degli alberi, la cui forza e saluta è direttamente collegata alla corretta funzionalità dei due strati inferiori appena descritti. "Pulendo" il bosco, andiamo ad alterare principalmente lo strato a terra e quello a mezza altezza, togliendo al bosco stesso una sua parte funzionale. L'ecosistema boschivo si andrà quindi ad indebolire.

Inoltre l'eliminazione del sottobosco porta ad avere fogliame che rimarrà sul suolo secco, senza la possibilità che esso venga decomposto. Il rischio è che, con il calore dei mesi estivi, in queste condizioni le possibilità di un incendio aumentano in maniera esponenziale, ottenendo l'effetto opposto di quello che si crede di fare con la "pulizia" del bosco.

La domanda a questo punto sorge spontanea: è meglio un bosco "pulito" o un bosco "integro" in tutte le sue componenti?

Concludo con alcune considerazioni del marchese Federico Fagnani, possidente di Gerenzano fino all'anno della sua morte (1840), riguardante la gestione dei boschi, tratte dal suo libro "Osservazioni di economia campestre fatte nello stato di Milano" - 1820.

"Sul governo dei boschi, parmi scorgere alcuni errori tra i quali primi d'ogni altro la riprovevole frequenza del taglio della legna cedua. Gli antichi statuti disponevano dovesse farsi ogni 10 anni, poi ridotto anche fino a 7 anni l'intervallo di tempo tra uno e l'altro taglio. Ora i tagli immaturi, quelli cioè che precedono il termine dei 10 anni scemano notevolmente la quantità della legna che in un determinato numero di anni si potrebbe trarre dai boschi. Per esempio, nel giro di novanta anni, il bosco tagliato ogni 9 anni avrà prodotto minor quantità di legna del suo eguale tagliato ogni 10, quantunque quest'ultimo, sarà tagliato una volta meno dell'altro, siccome lo dimostra un facile calcolo.

Un altro errore sembrami di osservare nel modo arbitrario, e fuori d'ogni regola, nel quale si procede al taglio degli alberi. I tagli si fanno ordinariamente a misura del bisogno di far denaro, ed ogni altra cosa viene posposta ad una tale considerazione. E così facendo si tagliano alberi alla rinfusa, senza punto per mente alla condizione futura del bosco. Quanto sia nocivo un tal costume alla conservazione e al miglioramento de' boschi si comprenderà agevolmente, qualora si considerino tre tipi di alberi: alberi maturi, alberi di bella venuta e alberi stentati, difettosi e decadenti.

Ora le buone regole, anzi il semplice buon sentimento prescrivono che si taglino gli alberi maturi, perciocchè decadono lasciandoli più lungamente in piedi; che si conservino gli alberi di bella venuta per le speranze che danno; finalmente che si taglino, o si svellano gli altri, i quali aduggiano il bosco e lo dimagrano senza speranza di profitto.

Sarebbe perciò una pratica lodevole, allorchè ricorrono i tagli annuali della legna cedua, il tagliare contemporaneamente così le piante mature, come quelle che non verranno mai da nulla, o che sono guaste e cadenti, serbando un maggior numero di giovani pianticelle (dette tra noi allievi) deviando in ciò dalla generale consuetudine, perciocchè in tal guisa ci ridurremo a migliorare notabilmente i nostri boschi, i quali da venti anni in qua vanno in decadimento, appunto per l'aspro, ed insensato governo che ne facciamo.

E qui si vuole notare che le piante stentate, ma giovani, debbono essere recise al piede perciò che hanno il vigore di gettare molli polloni che raffittiscono prontamente il bosco; mentre per lo contrario gli alberi maturi, e soprattutto quelli che cominciano a decadere debbono essere svelti per motivo che non producono polloni. Di più il padrone trae qualche profitto dalla radice svelta, e può piantare con buon successo, massime, se il bosco è rado, altre pianticelle e particolarmente la Robinia Spinosa che in quella terra smossa per l'estrazione della radice, e fecondità dalle zolle erbose, e dai rimasugli della pianta che ben presto imputridiscono prova assai bene, nonostante l'ombra ed il fresco della selva, che tanto nuocciono all'incremento delle altre giovani pianticelle, il che posso asserire fondandomi nella mia propria esperienza.
E qui sarebbe forse il luogo di dire alcune cose in lode di questa pianta, per inculcarne vie più agli agricoltori la moltiplicazione , alla quale molte persone si oppongono tuttora con singolare ostinazione, o per naturale ritrosia a qualunque cosa nuova, oppure per difetto di cognizioni. Io per altro mi contenterò di dire che se la meravigliosa propagazione di questa pianta, ed il suo rapidissimo accrescimento possono dissuadere dal porla intorno ai campi, tali difetti si convertono in sommi pregi quando si tratta di fare nuovi boschi, e di rinselvare foreste povere di piante. Si lamentano alcuni che questa pianta sia troppo fragile, o per parlare più apertamente, troppo soggetta a schiantarsi, quando è investita da un vento gagliardo. Questa considerazione può al più dissuadere gli agricoltori dall'allevarla in albero, ma non già dal coltivarla a palina, a capitozza, nel qual modo produce in due anni rami tanto lunghi e grossi quanto il castagno in cinque, e l'ontano in quattro. Che se questo primo vantaggio non bastasse a indurre i coltivatori a coltivare la robinia almeno quanto coltivano le suddette piante, sappiano che il legno della robinia è tanto consistente, che dura il doppio del castagno, ed il quadruplo dell'ontano anche contenendosi in termini moderati. Io non mi distenderò di più in questa digressione sulla robinia perciocchè chi non volesse arrendersi ai fatti, che predicano altamente i pregi di questa pianta, sarebbe ancor più recalcitrante ai ragionamenti. Chi poi circondasse il bosco di fossi e di ciglioni trarrebbe da questa industria un sensibile profitto, e per la difesa del bosco e per il sollecito incremento delle piante, massime se il bosco potesse innaffiarsi, siccome spesso avviene, cogli scoli dei vicini campi, delle strade, o di altre torbe; perciocchè, trattenute quelle acque nei boschi a guisa di colmate, esse vi depongono una belletta che ne rialza e feconda il suolo ed accelera meravigliosamente la crescita di quasi tutte le piante, e specialmente degli ontani, e dei pioppi. Queste operazioni, le quali non sono ne lunghe, ne molto dispendiose, che che se ne dica ai padroni in contrario, sono certamente di notabile profitto.

Un'altra perniciosa pratica, che dannifica assai i nostri boschi si è la consuetudine di recidere, qualunque volta si taglia il bosco, i rami delle piante in modo tale che quasi tutto il loro fusto ne resta spogliato. Questo in discreto taglio, contrario alle leggi della vegetazione fa intristire le piante, e ne accelera il decadimento e la morte . A precorrere siffatto danno i coltivatori stimano efficace antidoto il lasciare alle piante quattro braccia di cima, vale a dire il non produrre il taglio oltre a quattro braccia di distanza dalla cima del più alto ramo. Io non deciderò se questa cautela basti sì o no a mantenere le piante in sanità, mą noterò solo che la menzionata prescrizione è difficilmente osservata sia per la negligenza dei tagliatori, sia per la cupidità dei compratori dei boschi cedui, sia finalmente per la difficoltà di verificare nel debito modo ogni contravvenzione a quel divieto. Miglior partito sarebbe dunque a mio credere quello di non permettere un tale sfrondamento, anche a costo di diradare il bosco al fine di ovviare ai danni che reca la soverchia ombra alla macchia bassa. Ma laddove si volesse perseverare in questa pratica, farebbe mestieri fissare il punto oltre al quale non dovesse estendersi il taglio in ragione di una distanza, misurata non già dalla più alta estremità dell'albero, ma bensì dal suolo donde sorge il suo tronco, avvertendo però che dovrebbero eccettuarsi dallo sfrondamento le piante, il cui fusto fosse d’un diametro minore di quattro once. Infatti cosi facendo si avrebbero due vantaggi, cioè di determinare senza tema d'ingannarsi i confini del taglio, e di riscontrare prima, e di provare dappoi con facilità le frodi dei compratori. Un'asta di otto o dieci braccia servirebbe di norma per non ingannarsi in quelle occorrenze.

La scarsezza poi degli strami, che atteso il gran numero degli animali d'ogni generazione che noi alimentiamo, spesse volte ci pone in grave impaccio, induce i contadini a brucare le piante. Un tale sfogliamento non solo nuoce alla prospera vegetazione delle piante, ma le sconcia in guisa che rimangono sformate per sempre, perciocchè nel cogliere le foglie i contadini, onde evitare la fatica, sogliono curvare a forza le giovani piante, non senza schiantarne spesso i rami. Ma se la penuria degli strami è cagione del nocivo sfrondamento vernale, ed anche estivo delle piante, la scarsezza dei concimi costringe il contadino a spogliare nell'autunno le piante delle foglie che ne ricoprono il suolo, non senza notabile pregiudizio del bosco .

Io so purtroppo che un tale costume è generale nei nostri paesi: che sempre è impresa difficile l’abolire le vecchie usanze che in molte parti della provincia milanese il vietare a un tratto quella pratica potrebbe recare più gravi danni di quelli che derivano dal tollerarla: e che perciò sarebbe cosa mal considerata il pretendere assolutamente che i contadini più non raccogliessero a loro proprio profitto le foglie; laonde non insinuerò ai padroni di proibirlo assolutamente. Invece mi contenterò di suggerire ai possessori di restringere la tolleranza di un tale abuso ai boschi di tre anni compiti vietando più rigorosamente la raccolta delle foglie in quelli tagliati avanti quel termine. Anche la cosiddetta gattinatura, che sotto nome di "Incerto" si pratica in parecchi distretti della Lombardia, è un uso nocivo alla conservazione dei boschi. Consiste la gattinatura nel taglio delle ginestre, delle stipe, delle felci, delle eriche, e per concomitanza eziandio delle piccole piante, che sogliono nascere spontaneamente nei boschi. Io ignoro l'etimologia di questa parola, e l'origine di un tale incerto, cose tutte che non meritano il conto di essere studiosamenle indagate. So per altro che la gattinatura è perniciosa, perciocchè spoglia interamente il terreno di quelle materie, una parte delle quali putrefacendosi col volgere delle stagioni gioverebbe ad impinguare il suolo. Rammenterò poi che la gattinatura, come gli altri incerti, dà campo alle persone che la valgono a loro profitto di commettere abusi, che recando ad essi tenue profitto, danneggiano non poco il padrone; siccome appunto è l'accennato taglio delle nascenti pianticelle destinate a mantenere il bosco in istato. All'emenda pertanto delle malvagie usanze da me accennate, dovranno volgere il pensiero quei padroni, che meglio informati dell'utilità dei boschi, avranno a cuore la conservazione ed il miglioramento di quelli che posseggono; perciocchè operando diversamente vedranno peggiorare a occhiate le loro foreste, ed in ultimo convertirsi in aride e sterili lande. All'intendimento poi di accrescere la vigilanza dei possessori in questo particolare ricorderò loro, che il prezzo delle legne viene crescendo alla giornata, e che assai verosimilmente andrà per molto tempo in aumento. Infatti, si consideri che il prezzo della legna è notabilmente cresciuto dal principio del secolo a questi giorni, qualunque siasi fatto un vero scempio di piante per diversi motivi che non accade di riferire in questo luogo, di modo che può dirsi con ragione, che in venti anni si è consumata la provvisione di piante preparata in più secoli, dalla qual cosa è naturale l'inferire che la legna anzi che venire scemando, andrà piuttosto crescendo di prezzo, quantunque si cominci a studiare il modo di minorarne il consumo senza diminuzione degli effetti. Ciò serva di salutare avviso ai possessori, che poca cura prendono dei loro boschi per la falsa immaginazione che siano , per così dire, la giunta delle loro possessioni."

Nonostante questo libro sia stato scritto 203 anni fa, molte delle pratiche e osservazioni descritte, sono ancora attuali...

Visto che si è parlato di marchese Fagnani, vi "delizio" con un proverbio gerenzanese a lui dedicato: " Quel cal laura no al mangia par dü (n.d.r. ul marches Fagnani), e quj ca làuran  (n.d.r. i paisan) g'hann nanca ul temp par mangiàa".

Altro sagace proverbio gerenzanese che possiamo "applicare" sempre al marchese Fagnani: avrete notato che nel suo trattato sui boschi sopra descritto, usa molte volte la desueta congiunzione "perciocchè". Il proverbio recita: "L'è vun cal parla in perciocchè", ovverosia in un mondo "contadino" dove si parlava principalmente in dialetto, si diceva così di una persona colta che parlava in italiano, e il marchese, colto, lo era sicuramente!

Ma per par condicio, concludo dedicando ai "rozzi paisan" di un tempo del marchese questi altri due detti locali (entrambi stanno a indicare persone ignoranti o che non hanno studiato):

- "A l'è nassùu dadrè dal cüu d'una vaca"

- "Al gh'a mangiàa i liber la vaca"