giovedì 16 febbraio 2012

Ul purcell

Questo racconto è tratto dal manoscritto che Mario Carnelli ed Albino Porro hanno redatto nell'ormai lontano 1984 (il libro è disponibile presso la biblioteca di Gerenzano).
Nel manoscritto viene raccontata la storia della Gerenzano che fu, quella dei nostri nonni e dell'adolescenza dei nostri padri, la vita quotidiana, i lavori dell'epoca, il dialetto come unica lingua, la toponomastica della vecchia Gerenzano...una Gerenzano scomparsa, ma che vive nel cuore dei "nostar vecc" !

Questo blog mensilmente proporrà uno di questi racconti...


Una parte dei “paisan” di Gerenzano al tempo della seconda guerra mondiale allevava il maiale. Ho detto una parte perché non tutti erano in grado di sostenere i costi. Era per loro una fonte di sostentamento extra in quegli anni in cui la fame si faceva sentire. Il maiale di allora era diverso dal maiale di adesso perché diverse erano le esigenze: allora si privilegiava il maiale “grasso” che dava più grasso e meno carne, mentre ora si dà la preferenza al maiale “magro” che dà più carne e meno grasso. Lo preferivano “grasso” perché questo tipo di maiale ne produceva molto e una famiglia ricavava il condimento per tutto l’anno.
Il maiale era allevato in un recinto chiamato “stabiell” ed aveva una dieta standard. Da piccolo gli davano un pastone composto di patate bollite ben schiacciate miste a crusca e poi, man mano che cresceva, a questo pastone era aggiunta anche farina gialla. Successivamente gli levavano le patate, poi anche la crusca e gli veniva dato solo farina non densa e alla fine solo polenta. Le patate (i famosi “pumitt”), la crusca e la farina erano fatte cuocere con la “caldera” o con i “parieu”.
Ai primi di dicembre o di gennaio dell’anno successivo (a secondo di quando era nato) il maiale era giunto al termine della sua vita. Si capiva dal fatto che non riusciva più a camminare tanto era grasso (peso: 2 quintali e mezzo circa) e non mangiava quasi più niente (solo un pò di polenta). Era ucciso con un colpo secco in fronte là dove iniziano le setole con un attrezzo chiamato “puntireu”. Con una tecnica particolare: lo si irrorava d’acqua, la cui temperatura ottimale doveva essere sui 60° e gli venivano levate subito le setole con dei coltelli. La temperatura dell’acqua doveva essere sui 60° perché se era troppo bassa non riusciva a ammorbidire le setole, mentre se era troppo alta le setole si cuocevano e non si staccavano più dalla cotenna.
Poi con delle carrucole veniva issato a una trave del portico e si finiva di levagli le setole rimaste. Gli si tagliava la testa e lo si divideva in due mezzane e da queste il “paisan” sezionava lardo, pancetta, grasso, costine, fegato, cotenne e “pescieu” per il suo uso, tutto il resto veniva macinato e impastato con l’aggiunta di carne di bue o di vacca (onde utilizzare al massimo il grasso del maiale) precedentemente acquistata e finiva in salami, salamini e mortadelle con l’aggiunta di spezie e di sale.
Il grasso che non era utilizzato per i salumi era appeso ad asciugare (ci voleva circa mezza giornata), poi si tagliava a pezzettini, si macinava, si faceva liquefare, si filtrava con un panno e si metteva nei recipienti nell’attesa dell’uso. Si divideva poi la carne in due mucchi: la prima scelta per i salami, la seconda scelta per i salamini: si aggiungevano kg 2,8 di sale, 140 g. di pepe (parte in mezzi grani e parte macinato) e un succo d’aglio per quintale di carne per fare i salami e 3 kg di sale, 130 g di pepe e dei pezzettini d’aglio sempre per quintale di carne, per fare i salamini. Fatto questo si metteva la pasta in una macchina insaccatrice alla cui estremità veniva infilata una “budella” (precedentemente lavata) e vi veniva spinta in modo che non si formassero bolle d’aria. In fine salame, salamini e mortadelle erano legati ed appesi in un luogo scuro e stagionare.

Dal maiale il “paisan” utilizzava tutto e dal maiale ricavava la materia prima che, unita alle verze, creava ad una grande specialità lombarda “ la cazeura”.

venerdì 3 febbraio 2012

Un bianco marchigiano...

Collestefano Verdicchio di Matelica DOC annata 2009 – Titolo alcolometrico 13%
Azienda Vitivinicola Collestefano – Castelraimondo (Macerata)

Uno dei miei bianchi preferiti, che ho stappato sia durante il pranzo natalizio dell’anno appena trascorso, sia qualche giorno fa. Vino che arriva da una delle regioni a me più care le Marche, girata in lungo ed in largo tanti anni fa, dal mare alle colline, fino agli appennini. Regione bellissima, forse un po’ sottovalutata turisticamente (meglio così), i cui abitanti sono sinceri, schietti, alla mano, con quella parlata strano, a volte incomprensibile per i “forestieri”, ma che sicuramente ti affascina. Regione che regala scorci di panorami bellissimi, dal Conero alle cittadine collinari interne, esempi di architettura medievale che il mondo ci invidia. Regione che regala, enogastronomicamente parlando, delle perle e delizie incommensurabili, dalle buonissime olive ascolane ripiene a pesce e carne di eccelso livello (ricordiamo che una delle razze bovine italiane migliori è proprio la marchigiana), per arrivare a vini che assaggi e non scordi più.
Tra questi sicuramente rientra il Collestefano.
Collestefano, ottenuto da uve Verdicchio in purezza, rientra nella DOC Verdicchio di Matelica, di cui oltre alla versione secca, è presente anche nella versione spumante e passito. Vino biologico, le cui uve vengono raccolte tardivamente, e che subisce un affinamento in acciaio.
Visivamente presenta un bel colore giallo paglierino con leggeri riflessi dorati, con una discreta consistenza sulle pareti del bicchiere. Al naso ha una grande intensità e franchezza ! Le note minerali la fanno da padrone, pietra focaia, polvere da sparo, a cui si aggiungono delle note salmastre, che ti fanno immaginare la spiaggia di pietre bianche di Portonovo, con il promontorio del Conero alle spalle che finisce a strapiombo nel mare. Si sentono richiami erbacei, di fieno secco, fiori secchi.
In bocca ha una freschezza gustativa e sapidità incredibili, che provocano una continua salivazione. Ottima morbidezza ed un ventaglio di sensazioni gusto olfattive di alto livello, accompagnati da un buon corpo ed elegante armonia, lo portano ad essere un grande vino, soprattutto in riferimento al rapporto qualità/prezzo.

Direi che un accostamento ad una bella grigliata di pesce locale o ad un piatto di olive ascolane ripiene è la sua gloriosa, anzi gloriosissima fine.
Su, ora datevi da fare a cercarlo ed assaggiarlo, poi mi racconterete, io intanto gli ho affibbiato un bell’89 punti !!!
P.S. nel frattempo nella mia cantina riposano varie bottiglie di Collestefano, che spaziano dall’annata 2006 fino alla 2010…e tra un po’ mi sa che arriveranno anche le sorelle della 2011 !!!