mercoledì 18 dicembre 2013

Natale e il suo pranzo nella vecchia tradizione del basso varesotto...

Risulta sempre più difficile risalire ad antiche ricette ed usanze natalizie in voga nei tempi che furono, relative alle nostre zone d’origine… il numero dei “nostar vecc” purtroppo diminuisce con il passare degli anni, e la loro esperienza, vita e cultura rischiano di scomparire per sempre.

Ma con un poco di pazienza, grazie a qualche intervista “giusta”, appunti di mio padre e recuperando tracce e curiosità fra i tanti libri di cultura locale presenti nell’immensa libreria che fu sempre di mio padre, ho cercato di trovare informazioni su quel periodo, relativamente a com’era vissuta questa giornata e cosa si mangiava durante il pranzo natalizio. Difficile riunire in un unico “grande menù” le varie pietanze e piatti che si alternavano a Natale sulle tavole dei nostri nonni, visto che poi ogni famiglia aveva e ha ancora adesso uno o più piatti forti, ma proverò a sviscerare in modo più (o meno) esaustivo l’argomento.
Natale: innanzitutto iniziamo a parlare della Natività. Per i nostri vecchi era chiaramente una festa ben diversa dall’attuale. A quei tempi era concepita e vissuta solo come momento religioso, dove la nascita del Cristo era l’elemento centrale di quella giornata. Devoti com’erano, prima di tutto veniva la partecipazione alla “Mesa de mezanòtt” o alla “Mesa Granda”, poi come corollario avveniva l’aggregazione in famiglia, dove ci si riuniva tutti intorno al tavolo per festeggiare e passare insieme la giornata, dinanzi a leccornie che a quel tempo erano disponibili solo per quella particolare occasione.

Tra le altre attività previste in quel giorno, vi era l’immancabile visita mattiniera “ai mort” al cimitero, dopo di che le donne correvano a casa per gli ultimi preparativi del pranzo, mentre gli uomini si fermavano per un “bicèrin” veloce con gli amici. E poi, come detto prima, ecco che si dava il via alla grande abbuffata !
 Al giorno d’oggi invece Natale ha ormai assunto significati di puro carattere commerciale: la frenetica corsa ai regali, la voglia di passarlo magari in vacanza in posti esotici per trasformarci anche noi in VIP, e tante altre “baggianate” hanno snaturato il significato della festa. Ma questa è purtroppo un’altra storia… rimane comunque per i più, l’appuntamento a tavola.

Lasciamo quindi il moderno Natale e facciamo un salto indietro di circa settant’anni - ottant’anni, ponendoci  tra il 1930 - 1950….
Fino a cavallo delle due guerre, se non anche per il decennio successivo, l’unica fonte per la cottura dei cibi (e anche per riscaldarsi, oltre che al calore dato dagli animali presenti nella stalla) era il fuoco provocato dalla combustione di ceppi di legna e di “maregasc”, alternati al carbone. Pentola principe della cucina era il “parieu”, il famoso paiolo in rame nel quale si cucinava la polenta, per poi trovare anche “padèll e padèlitt” di svariate forme e dimensioni. Il pentolame per cucinare era posto sopra il “foeug” del camino, attaccato alla cappa tramite una catena, oppure sulla “stüa” a legna o carbone (che comunque fu introdotta negli anni successivi), e qui s’iniziava a cuocere il cibo. Cibo prevalentemente formato da “süpa”, “minestar”, “pulenta”, “carna pouvera”, urtagg” e “öeuv”.

La varietà di scelta di cibi non era quindi molto ampia, famoso è il detto “se l’è no süpa l’è pan bagnàa”, solo con l’avvento più avanti di cucine a gas (molto più veloci nel cuocere il mangiare), un maggiore benessere economico e “l’imbastardimento” con altre cucine regionali, dovuta all’arrivo dei migranti nei nostri paesi in cerca di lavoro, si modificarono (in parte) le nostre ricette e tradizioni culinarie.
“Ul dì de Natäl” era già chiaramente vissuto il giorno prima, la vigilia. Alla sera della stessa s’iniziava a respirare l’aria natalizia con il passaggio nelle principali vie del paese della locale banda musicale, la quale eseguiva le “nenie” e la famosa “Piva”. Gli adulti passavano la notte a vegliare nel caldo della “stàla”, oppure in qualche osteria (soprattutto gli uomini). Denominatore comune era la presenza del vino, che scaldava e metteva allegria ! “Vers i des ùr”, ecco che saltavano fuori i primi piatti “de büseca” o qualche “cudeghìtt”, il tutto rigorosamente cucinato solo dagli uomini e accompagnati con una bella pagnotta “de pan giàld”. Perché la notte della vigilia cucinavano la “büseca” esclusivamente gli uomini ? Perché era credenza che le viscere delle donne, solo per quella notte, ricordano il travaglio della Maternità. Successivamente, verso le undici – undici e trenta, ci s’incamminava “vers la gèsa” per la messa di mezzanotte (l’usanza della messa notturna era la principale scelta dei nostri bisnonni e nonni, ma comunque molti altri invece partecipavano alla successiva messa mattutina).

Non era raro uscire poi da chiesa e imbattersi, nel caso di neve, nel fragoroso passaggio della “calauàa”, a quel tempo formata da un carro con la “cala” in legno trainato da cavalli. La giovialità toccava il suo culmine nel momento dello scambio degli auguri sul sagrato della chiesa, dove abbracci e saluti si sprecavano tra amici e conoscenti. Usanza era anche quella di recarsi in sacrestia a porgere gli auguri al parroco, vero conduttore della vita sociale di quel tempo.
Al termine della messa, iniziava l’attesa più lunga per i bambini: anche per loro, come per noi e i nostri figli (ci siamo passati tutti), il mattino successivo era atteso con trepidazione, nella speranza di trovare qualche regalo. Regali che chiaramente non erano numerosi e tecnologici come gli odierni, ma si limitavano a qualche  piccolo Pinocchio o bambolina di legno o di pezza, lavagnette, pallottolieri, trottole di legno oppure in qualche bel “bumbòn” da assaporare e gustare lentamente (cosa che però non avveniva mai, data l’ingordigia dei bimbi)….i più fortunati (e ricchi) potevano ricevere magari anche una biciclettina, che l’avrebbero poi portata sino all’età adulta (per poi passarla ai fratelli minori). Mio padre, all’età di 10 anni, invece ricevette una bellissima macchinina in metallo della Schuco, ancora oggi presente e funzionante a casa mia (ricordo che mi diceva che mio nonno, cioè suo padre, fece sacrifici economici tutto l’anno pur di acquistargliela !)

Vi erano alcune usanze particolari da rispettare durante la vigilia e la giornata di Natale. Usanze riconducibili a prima del 1900, in quanto anche mio padre mi ha sempre detto che fin da piccolo alcune di queste non le ha mai viste fare ne dai suoi genitori, ne dai suoi nonni.

VIGILIA

·         Stare a digiuno oppure mangiare solo di magro

·         A mezzanotte mangiare la “cassoeula” o in alternativa “büseca”

·         Non spazzare la casa appena benedetta dal prete

·         A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e con essa lavare i bambini, in quanto era l’acqua di Gesù Bambino (1ª versione)

·         A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e berla con tutta la famiglia, perché la si ritiene benedetta (2ª versione)

·         A mezzanotte prelevare l’acqua dal pozzo e bagnare i graticci destinati ai bachi da seta, altrimenti quest’ultimi moriranno (3ª versione)

·         Mettere una tazza di brodo e un lumino sul davanzale della finestra per i morti

NATALE

·         Non rifare i letti

·         Al suono dell’Ave Maria bastonare gli alberi da frutta, in quanto la credenza era quella per cui si avrebbe avuto un buon raccolto

·         Non leggere, tranne i libri delle preghiere, in modo da preservare la vista

·         Offrire un cucchiaio di risotto agli animali, così rimanevano benedetti anche loro

·         Offrire il vino di propria produzione

·         Ungere con la schiuma del brodo il ceppo che arde sul fuoco

·         Sulla spalliera del letto riporre un grappolo secco d’uva, in quanto portava fortuna

La mattina di Natale, per quelli che si recavano alla “Mesa Granda”, era vissuta come raccontato in apertura dell’articolo, per poi accomunarsi in maniera simile per tutti.
Il ceppo più grosso che si trovava nella legnaia era il predestinato per essere riposto nel camino, e il suo compito era di durare tutto il giorno (o il più possibile). La scelta del ceppo era fatta dal membro più anziano, e la sua accensione era quasi un rito cerimoniale, utilizzando anche talvolta rami di alloro o altre erbe aromatiche.

Le tavole erano imbandite con le tovaglie della festa (solitamente prelevate dal corredo matrimoniale), e i profumi della cucina iniziavano ad espandersi nell’aria, provocando forti languorini tra tutti i commensali.
Nell’attesa era tradizione consumare una piccola tazza di brodo “da còo da vaca”.

“Ul regioù” si recava personalmente in cantina “a ciapà ul vin quel bòn”, che poi in realtà non differiva da quello consumato quotidianamente, mentre solo più avanti negli anni prenderà piede l’usanza di accompagnare il dolce con la famosa “acqua de pòmm”, ovverosia un vino di tipo moscato proveniente  in prevalenza dall’Oltrepò Pavese, invece ora è sicuramente più famoso e in voga il moscato piemontese.
Con il giungere di tutti i familiari prendeva il via il pranzo. Convinzione particolare era quella che il cibo cucinato a Natale durasse più a lungo, tanto è vero che se ne avanzava in parte anche per Santo Stefano e per i giorni successivi. Questo fatto è comune anche al giorno d’oggi, non perché si crede che duri più a lungo, ma perché semplicemente ne abbiamo talmente in abbondanza che avanza anche per il giorno dopo.

A quei tempi l’antipasto vero e proprio non esisteva, al massimo si affettava del salame nostrano e come chicca natalizia si gustava qualche “saracch” comprata per l’occasione al “mercàa”. Si cucinava prevalentemente come primo piatto del risotto o in alternativa, soprattutto spostandoci verso Varese, si mangiava la “rustisciada” o la “rustaia”. La “rustisciada” era un fritto di “lacet, firon, cervela, luganiga” e abbondante cipolla, mentre la “rustaia” era fatta con lombo di maiale e “luganiga”, cotti a fuoco lento con trito di cipolla, rosolati con del burro. Il piatto clou era invece la carne, soprattutto il cappone o l’oca (altrimenti ci si accontentava di un semplice “pulastàr”).
“Bonn fest e bon Natal – e bonna carna d’animal” (proverbio saronnese)

Il cappone, che è un gallo castrato, veniva ben “ingrassato” per il Natale allevandolo nella “capounera”, una rudimentale gabbia in legno e rete metallica che dava poco spazio di movimento al malcapitato gallo, che nutrito forzatamente, diventava bello pasciuto nel giro di pochi mesi.
Sgozzato, spiumato ed eviscerato, veniva cotto sul fuoco per circa due ore, due ore e mezza. La perfetta cottura si capiva dalla morbidezza delle carni e dalla pelle croccante e leggermente bruciacchiata.

La classica variante era quella del cappone ripieno: si faceva un trito di carni (solitamente derivate dai tagli meno nobili di altri animali precedentemente macellati), si univa prezzemolo, aglio, uova, sale, rosmarino, erba salvia, noce moscata e qualche fetta sbriciolata di salame, e con pazienza e sapienti gesti si riempiva completamente l’interno del cappone.
Alternativa al cappone era l’oca, soprattutto nella zona del Saronnese. La preparazione è simile a quella del cappone, sia nella versione non ripiena che ripiena. “I sarònatt” nel ripieno aggiungono anche degli amaretti, giusto per dargli un tocco particolare in più. Un’interessante ricetta tradizionale di oca alla “gerenzanese” la troviamo ben descritta qui, sul sito di Pierangelo Gianni.

Come sapete, i nostri vecchi erano maestri nel non buttare nulla per quanto riguarda gli animali macellati. Infatti le interiora del cappone (o oca), tra cui fegato, cuore, e viscere, una volta ben pulite erano cotte per circa un’ora tra loro, creando un intingolo profumatissimo. Questo intenso profumo lo ricordo benissimo anch’io, in quanto finché i miei nonni hanno avuto il pollaio, cucinavano queste particolari parti dell’animale. Dico la verità: non ho mai avuto il coraggio di assaggiarli, ma il profumo forte e deciso, era veramente invitante.
Ma per le feste, la parte principale dell’animale che veniva riutilizzata era il collo. Una volta ben pulito anche lui, era riempito di ripieno e cotto assieme al cappone. Tagliato poi a fette, era la vera specialità della giornata. Ancora oggi a casa mia viene fatto, ed è davvero buono !

Non tutti però avevano l’usanza di cuocere arrosto il cappone o oca natalizi. Venivano cotti anche “a lèss”, risultando così meno saporiti ma sempre pur molto teneri (testimonianza di mia madre: “a cà mia gh’era menga tropp da rost, la mama Giuanina la faseva sempar ul lèss)…
La carne era accompagnata con della mostarda, sempre presa solo per quest’occasione. Ci si recava presso la cooperativa o al mercato con una piccola “sidèla”, la quale veniva riempita fino alla quantità desiderata dal commerciante che la vendeva. Quest’ultimo la prelevava da un enorme “mastell” ricolmo della stessa, e con il “pedrioeu”serviva i clienti.

Il pranzo si svolgeva con ritmi molto lenti e lunghe pause. Questo sia per riprendere appetito, sia per dare spazio alle lunghe e innumerevoli discussione che si aprivano a tavola (la classica tombolata natalizia prenderà piede molto più avanti).
Dopo la carne, ci si permetteva da “bucunà un po’ da strachìn con un tuchelitt da pan giàld, giüst par netàa la bùca”! “Ul strachìn” era praticamente l’unico formaggio che si mangiava a quell’epoca nella nostra zona. Nel sud della provincia di Varese, non vi era l’usanza di fare del formaggio, il latte veniva utilizzato principalmente per ottenere il burro (tramite la famosa “pènagia”), ma soprattutto era destinato ai vitellini, e non alle persone.

Come frutta, noci, “pòmm” e fichi secchi (tutta roba nostrana chiaramente) erano quelle principalmente servite, poi con gli anni arrivarono arance, mandarini, spagnolette e dopo le conquiste coloniali anche datteri e banane.
Si giungeva così al dolce, che chiaramente era semplicissimo: la classica “brusèla”, pane a cui si aggiungeva fichi o uva, che chiaramente, dato il periodo, erano stati fatti essiccare. Il panettone classico giunse ben più tardi, nel dopoguerra, con tante altre nuove novità (non solo culinarie) che i nostri bisnonni fecero in tempo ad apprezzare per non molto tempo, data la loro età ormai avanzata. Anche se per onestà, per quanto riguarda i dolci, non posso esimermi dal ricordare il panettone saronnese, “ul Marmott”. Pare che questo dolce, derivato dal “pan giàld” al cui impasto si aggiungeva burro, uova, zucchero e uva, a Saronno fosse già citato in un articolo fin dal 1839. Inizialmente la forma era tozza, schiacciata, poi una volta iniziata una maggiore produzione, assunse la classica forma del panettone. Non è escluso quindi che a quel tempo un simil panettone fosse in uso nel circondario di Saronno, il problema è che poi anche a Saronno ne scomparve l’utilizzo, e quindi del “Marmott” se ne persero le tracce. Solo ultimamente si sta cercando di riproporne la ricetta e la sua riproposizione di dolce a livello locale. Ecco gli ingredienti della ricetta reinterpretata dal vecchio panificio De Micheli:

Farina gialla di mais hg. 2
Farina di segale integrale hg. 3

Farina di segale di frumento hg. 0,5
Fichi secchi tagliati a strisce hg. 2,5

Noci lievemente sminuzzate hg. 2,5
Mele sbucciate e affettate n° 3

Zucchero hg. 3

Burro hg. 1,5

La loro giornata di Natale , dopo ulteriori ore passate a discutere tra un “bicèr e l’altar” giungeva così al termine. I bambini esausti dalla baldoria fatta si addormentavano felici, mentre i “vecc” , malinconicamente, facevano notare che anche quel Natale era passato in un battibaleno, pregando “ul Signur” di fargliene vivere un altro ancora…

Rivarà stù gran Natàal
l’è una fésta in generàal

a la mattina ‘n büsechìn
cunt adrée un tazzìn de vin

al mesdì un bèl capòn
cunt adrée un quaicòs de bòn

a la sìra ‘n panetòn
vèm in lètt a tamburòn

(poesia di Massimo Pirovano - Castello Brianza)

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